A fine mese il centro di accoglienza per richiedenti asilo di Cavoretto (TO) sarà costretto a chiudere i battenti. Le cooperative che lo gestiscono, Carapace e Agape, non hanno partecipato al bando prefettizio – che scadeva a metà febbraio – per portare avanti il progetto. In base all’accordo ancora in vigore con la prefettura, i 33 ragazzi ospitati potranno restare nella struttura fino al 31 marzo. Successivamente, i migranti verranno smistati in altre strutture. Le due Cooperative hanno spiegato ai cittadini di essersi fermate perché non in grado di soddisfare le richieste del nuovo bando, che chiederebbe una presenza più costante di medici e infermieri.
Adramet Barry, coordinatore del centro, punto di riferimento per il borgo, non riesce a rassegnarsi: «Si rischia di vanificare un progetto splendido. Qui, col sostegno del borgo, si è creato un clima ideale per i ragazzi: 24 di loro hanno conseguito la licenza media. E due lavorano». Tante le iniziative sviluppate in collaborazione con i residenti: corsi di italiano e matematica, cene condivise, spettacoli teatrali, stage nei negozi. E ancora fra le altre, anche quella del giugno 2017, quando i migranti, armati di scope e zappe, si sono spontaneamente messi a ripulire dalle erbacce e rifiuti viale XXV aprile e la rampa di accesso alla parte sottostante, come piccolo segno di gratitudine verso la comunità di accoglienza.
Ma nel borgo qualcuno non ci sta: «Scriveremo alla prefettura per chiedere che i ragazzi restino a Cavoretto». Ed ecco che, contrariamente a quanto ci si aspetti, un gruppo di residenti e volontari, dopo l’annuncio della chiusura imminente, anziché cantare vittoria e festeggiare l’allontanamento dei migranti, scrivono una lunga lettera indirizzata al sindaco Chiara Appendino e al Prefetto Renato Saccone per dire no alla chiusura del centro. Diversi, secondo gli scriventi, i “motivi del successo del modello di accoglienza dei richiedenti asilo sperimentato a Cavoretto”. “In primo luogo”, spiegano, “la scelta di istituire un centro in un quartiere mediamente non disagiato economicamente, ha permesso, dopo i primi episodi di diffidenza, di smorzare le tensioni sociali fra gli ospiti e la popolazione che, in altre condizioni sarebbero state di gran lunga più ostative”. “Poi”, proseguono i residenti, “le modalità stesse del progetto di accoglienza, basato sulla responsabilizzazione e cooperazione dei giovani ospitati (per esempio turni di pulizia e di cucina), sull’attivazione di corsi per il conseguimento del titolo di studio e sull’apertura al quartiere. Non solo un’attitudine, ma eventi concreti”. Si è così spontaneamente costituita una rete, informale di volontari, che ha portato risultati notevoli. I volontari chiedono che il centro rimanga aperto, “perché la fine di questo esperimento, del “Modello Cavoretto”, sarebbe una incomprensibile sconfitta per tutti” e la “ricaduta sul quartiere è stata sorprendente”.
Questo ci fa ben sperare che un’Italia umana e solidale e che sa accogliere r-esista ancora.