Se prima c’erano solo alcune dichiarazioni, ora il piano immigrazione delineato dal ministro dell’Interno Minniti risulta sempre più ufficiale. E, se c’è una svolta, è in negativo. Quello che infatti anticipavamo poche settimane fa è stato confermato dallo stesso ministro nel corso dell’Audizione tenutasi l’8 febbraio presso le Commissioni congiunte Affari Costituzionali di Camera e Senato, in cui ha presentato le linee programmatiche del proprio dicastero.
Nuovi centri detentivi, rimpatri più veloci, lavori non retribuiti per i richiedenti asilo: queste in sintesi le linee guida del piano. Andiamo per punti.
Lavori non retribuiti
Secondo il ministro Minniti è necessario “utilizzare i richiedenti asilo per lavori di pubblica utilità, finanziati con fondi europei”. E per chi si preoccupa che queste persone possano togliere lavoro agli italiani, arriva la rassicurazione: “Non si creerà una duplicazione nei mercati del lavoro, perché non sarà un lavoro retribuito”. Il fatto di lavorare gratis secondo il capo del Viminale gioverebbe proprio ai richiedenti asilo, che così non subirebbero “il vuoto dell’attesa” causato dai tempi dilatati – fino a due anni – con cui arrivano le risposte delle Commissioni preposte a analizzare le domande. Non sarebbe preferibile dunque aggredire il problema alla radice, riducendo i tempi? Sicuramente sì, e lo afferma lo stesso ministro, spiegando che “bisogna intervenire dal punto di vista legislativo riducendo di un grado di giudizio per i ricorsi e con assunzioni nelle commissioni d’asilo”. Del resto, la riduzione dei tempi di risposta rispetto alle domande di asilo e protezione è un’urgenza sottolineata più volte, e non più rimandabile. Ma c’è un piccolo dettaglio: la lentezza della procedura caratterizza soprattutto la fase che precede il primo grado di giudizio, dunque è sull’iter di presentazione e della domanda, sui tempi di convocazione presso le Commissioni e sui tempi di risposta che dovrebbe concentrarsi l’attenzione.
Perché pretendere di rispondere alle disfunzioni della procedura con l’impiego dei richiedenti asilo in lavori socialmente utili non retribuiti? Se si intende evitare che siano costretti per anni all’inattività, che si riconosca loro la possibilità di lavorare subito dopo aver presentato la domanda di asilo. Costringerli a lavorare gratis significa aggiungere un tassello a quel processo di svalorizzazione del lavoro già ampiamente portato avanti a colpi di tirocini gratuiti, voucher e precariato nelle sue molteplici forme.
Detenzione
Al momento del proprio insediamento, il ministro aveva espresso da subito la volontà di ampliare il sistema dei Cie. Un sistema di cui da anni moltissime associazioni e organizzazioni per i diritti umani sollecitano il definitivo smantellamento. Ieri, in Audizione il ministro ha spiegato in maniera più specifica come intende accelerare le procedure di identificazione ed espulsione. Nel decreto legge, approvato il 10 febbraio dal consiglio dei Ministri, si parla di Cpr, ossia di Centri di permanenza per il rimpatrio. “Saranno aperti centri dove tenere le persone in attesa di essere rimpatriate. Uno per regione, per un totale di 1.600 posti”. Secondo il ministro non avranno “nulla a che vedere con i vecchi Cie: saranno strutture di piccole dimensioni, preferibilmente fuori da centri urbani, vicini a infrastrutture di trasporto, con governance trasparenti e poteri di accesso illimitato per il Garante dei detenuti”. Un sistema pensato per rendere più rapidi “i rimpatri forzati”, perché secondo Minniti “se funzioneranno questi cominceranno a funzionare i rimpatri volontari assistiti, per i quali prevediamo il raddoppio dei fondi”. Non si comprende in che cosa sia diversa la funzione dei “nuovi” CPR rispetto ai Cie attualmente previsti dalla legge proprio al fine di assicurare l’effettività del rimpatrio delle persone colpite da provvedimenti di espulsione.
Accordo Italia-Libia
Parlando di immigrazione, il ministro dell’Interno non ha potuto non menzionare l’intesa raggiunta tra il Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e il Presidente del Consiglio presidenziale libico Fayez Mustafa al Serraj. “Un primo passo” lo ha definito Minniti, auspicandone l’applicazione. Secondo il ministro infatti l’accordo potrebbe da una parte aiutare la Libia nella costruzione di un processo di stabilizzazione politica, e dall’altra ridurre il flusso dei migranti verso l’Europa, contrastando l’azione degli scafisti: un passaggio “non scontato, perché il traffico di esseri umani è una potenza economica in Libia, che è un Paese ben lungi dall’essere stabilizzato”.
La posizione del Ministro si scontra con le critiche espresse da molte associazioni. “Il Governo italiano si impegna a fornire strumentazione e sostegno militare, strategico e tecnologico, oltre a fondi solo teoricamente per lo sviluppo, ad un Governo sotto costante ricatto di milizie violente e armate, al fine di bloccare e controllare le partenze dei migranti in fuga. La Libia rimane un paese che non ha ratificato le più fondamentali convenzioni in materia di diritti d’ asilo e di rispetto dei diritti umani, e continua a sottoporre i profughi in fuga a trattamenti disumani e degradanti in centri di detenzione, come testimoniano innumerevoli rapporti e appelli delle più importanti organizzazioni internazionali, anche istituzionali”, denuncia l’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione. (dello stesso parere anche Msf e Medu, tra gli altri).
La strategia illustrata dal Ministro dell’Interno segue in realtà un tracciato ampiamente percorso: l’Italia non è nuova né ai rimpatri, anche forzati, né agli accordi con la Libia finalizzati a fermare i flussi di migranti. Percorso che non ha minimamente scalfito l’inferno in cui vivono i migranti nel paese nordafricano e il traffico di esseri umani su cui si arricchiscono gli scafisti. Anche l’idea dei lavori non retribuiti è cosa vecchia: nel 2015 il predecessore di Minniti, Alfano, emise una circolare per sollecitare i Comuni a impiegare i richiedenti asilo in lavori socialmente utili gratuiti (ne parlavamo qui).
Serena Chiodo