Dopo la bufera ed il video virale (qui il video) nel quale si filmava un dipendente della pizzeria Rossopomodoro, in Stazione Centrale, a Milano, mentre spruzzava del deodorante spray addosso ad alcuni colleghi di lavoro stranieri (era il 26 gennaio 2019 e un paio di colleghi del dipendente in questione hanno girato il video, poi diffuso tramite i social network, ndr), a distanza di un anno, giunge la sentenza del Tribunale di Milano. Una sentenza di un certo rilievo.
Nel video si sentono frasi come «perché non lo usate?», riferendosi al deodorante, e «alza le ascelle». Non sarebbe stato il primo episodio vessatorio e offensivo, ma forse solo quello più clamoroso. Due dei dipendenti umiliati e vittime di razzismo si sono rivolti ad un gruppo di avvocati e hanno proposto un ricorso ai sensi degli artt. 44 del Dlsg. 286/98 e 4 Dlsg. 215/03.
All’epoca dei fatti, Rossopomodoro aveva aperto un’inchiesta interna, prendendo le distanze dal “comportamento discriminatorio che non appartiene né per costume, né per tradizione, né per vocazione all’azienda di origine partenopea”. Rossopomodoro aveva tenuto anche a precisare, nello stesso comunicato diffuso, che l’azienda “assume ed ha sempre assunto il personale indipendentemente dalle proprie origini tant’è che nella forza lavoro già attiva in Italia i dipendenti provenienti da fuori Italia rappresentano il 35% della forza lavoro complessiva”.
Il pizzaiolo, invece, nel suo piccolo, si era difeso sminuendo i fatti e spiegando che era tutto uno scherzo, fatto in un clima di lavoro “divertente, rispettoso e cordiale”.
Il giudice del lavoro, invece, nella sua sentenza del 24 gennaio 2020, ha catalogato i fatti come “molestie razziali”, condannando sia il pizzaiolo che il datore di lavoro, avendo entrambi contribuito a creare “un ambiente lavorativo non inclusivo e di non accoglienza”.
Quindi, il giudice confrontando il dettato normativo con le evidenze probatorie raccolte, ha ritenuto che nei confronti dei ricorrenti, le condotte tenute dagli imputati integrino appieno “le molestie”, di cui all’art. 2, comma 3, del Dlgs. 215/2003.
Nella sentenza, si evidenzia che gli appellativi utilizzati (quali “negro di merda”, “ti rimando in Africa”, “sei brutto come la morte”, “perché siete venuti in Italia”, ecc…) “costituiscono, senza dubbio, comportamenti sgraditi, offensivi e umilianti”.
Il giudice ha quindi accolto la tesi che il datore di lavoro deve rispondere (ai sensi ex art. 2049 c.c., secondo il quale “i padroni e i committenti sono responsabili per i danni [2056 ss.] arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti [1900]”) delle molestie del dipendente che ha agito come se fosse un “responsabile”, pur non essendo stato formalmente investito da tale ruolo e che, anzi, proprio grazie al ruolo che si è auto-attribuito con la “tolleranza” dell’azienda, ha potuto tenere verso i dipendenti stranieri un comportamento vessatorio e razzista. Il titolare del ristorante (in franchising) ha provato a difendersi asserendo che si era trattato del gesto di un dipendente, “incontrollabile”, ma il giudice, avendo prova che si trattava di comportamenti ripetuti, lo ha condannato ritenendo che avrebbe dovuto impedire il sorgere e il perdurare di quel genere di clima. “Non vi è dubbio che fra gli obblighi vi è anche quello – riporta l’ordinanza – di assicurare ai propri dipendenti un ambiente lavorativo nel quale la persona non sia vittima di soprusi, trattamenti degradanti, umilianti e discriminatori”.
Tutti e due, dunque, risponderanno in solido del risarcimento del danno ai due dipendenti umiliati. Dovranno pagare una cifra pari a 8mila euro ai due lavoratori. Mentre il datore di lavoro è stato obbligato a organizzare per tutti i dipendenti un corso “che, con l’intervento di esperti, avvicini gli stessi alle tematiche razziali al fine di educarli al rispetto doveroso di ogni cittadino qualche che ne sia la sua provenienza o etnia” (un po’ sulla scia dell’esempio dato nei due clamorosi casi di Starbucks e Sephora, anche se in quel caso la decisione veniva dall’azienda stessa, e non imposta da un giudice!).
Il giudice ha ben concluso la sua sentenza spiegando che “l’essere, reiteratamente apostrofato con appellativi pesantemente offensivi e di matrice razzista, l’essere additato come persona che ha scarsa cura della propria igiene personale e che, per tale ragione, viene messo alla berlina, costretto a subire la “disinfestazione”, come l’ha chiamata l’improvvisato regista, e, comunque a diventare protagonista di una clip spregevole ed umiliante, sono fatti che, certamente non possono che lasciare traccia in qualsiasi persona di media sensibilità”.