E’ stata definita la “California d’Italia” per la ricchezza, la varietà e l’eccellenza dei prodotti della sua agricoltura. Il recente studio Piana del Sele – Eboli: lo sfruttamento dei braccianti immigrati (e non solo) nella “California d’Italia” di Medici per i Diritti Umani (Medu) si addentra però nelle condizioni di chi è impiegato nelle attività agricole di quei 500 chilometri quadrati di terreno fertile che si estende a sud di Salerno, a Piana del Sele.
Secondo una stima si tratta per il 60-80 % di lavoratori migranti. Il loro arrivo è da collocarsi intorno agli anni Novanta e si è intensificato in seguito alla contrazione dell’offerta della manodopera locale. Il sistema di grave sfruttamento ed emarginazione sociale ha resistito allo smantellamento del ghetto di San Nicola Varco, avvenuto nel 2009, che accoglieva oltre mille braccianti immigrati nei picchi stagionali. Da allora sono mutate le condizioni abitative, sono migliorate le condizioni igienico-sanitarie, è aumentato il numero di migranti in possesso di un regolare permesso di soggiorno ma dalle testimonianze e dai dati raccolti emerge che continuano a perpetuarsi caporalato, pratiche fraudolente, retribuzioni inferiori al salario minimo, irregolarità contributive, vendita di falsi contratti di lavoro, scarso accesso alle cure e al Servizio Sanitario Nazionale.
L’intervento di Medu
Nel gennaio 2014 Medu (Medici per i Diritti Umani) ha avviato il progetto “TERRAGIUSTA. Contro lo sfruttamento dei lavoratori migranti in agricoltura” in collaborazione con l’ Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI) e il Laboratorio di Teoria e Pratica dei Diritti (LTPD) del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Roma Tre.
Nei mesi di maggio e giugno, un team di Medu ha intervistato 177 lavoratori migranti e prestato prima assistenza medica e orientamento socio-sanitario a 133 persone, attraverso l’ambulatorio mobile che rientra nel progetto Terragiusta e che ha operato presso la sede FLAI/CGIL di Santa Cecilia (Eboli) e lungo la litoranea Salerno-Paestum (zona di Campolongo). Gli intervistati sono soprattutto uomini con un’età media di 35-36 anni, impiegati in agricoltura, provenienti dal Marocco e titolari di un regolare permesso di soggiorno per motivi di lavoro.
Il lavoro, lo sfruttamento e l’illegalità
Il 62% dei lavoratori stranieri in possesso di un contratto di lavoro (il 75%) ha dichiarato di percepire una paga giornaliera di 30 euro al giorno (a fronte dei 48 euro previsti dai contratti collettivi vigenti) e il 64% ha affermato di vedersi riconosciuto un numero inferiore di giornate lavorative rispetto a quelle effettivamente svolte (il 17% ha dichiarato di non sapere se ha ricevuto versamenti contributivi mentre il 19% non ha risposto alla domanda). Il 12% dei migranti in possesso di un contratto di lavoro ha ammesso il ricorso al caporalato. Si rileva come il modello di agricoltura presente sia ancora basato sullo sfruttamento dei braccianti immigrati e sul caporalato anche in presenza di un regolare contratto di lavoro, presentando poche differenze in termini di adeguatezza salariale rispetto al lavoro nero. Si evidenzia come tale modello sia strutturalmente definito e faccia leva sulla paura e sulla condizione di vulnerabilità dei migranti: buste paga fittizie, vendita di falsi contratti di lavoro che possono arrivare a costare fino a 6000 euro in concomitanza ai decreti flussi stagionali, compravendita dei contratti utili al rinnovo del permesso di soggiorno.
La salute e la mancata integrazione
Le condizioni di salute dei braccianti sono strettamente dipendenti da quelle lavorative e sociali. Alle patologie propriamente conseguenti al tipo di lavoro svolto (allergiche, cutanee e dell’apparato muscolo-scheletrico) si aggiunge il mancato accesso al Servizio Sanitario Nazionale e alle cure. Dal Rapporto emerge che «il 15,6% dei lavoratori intervistati ha affermato di entrare in contatto diretto o indiretto con fitofarmaci e, nell’80% dei casi, di non fare uso della mascherina protettiva. Inoltre l’86% dei braccianti, pur utilizzando presidi di sicurezza come guanti e scarpe, è obbligato in quattro casi su cinque a procurarseli autonomamente poiché non gli vengono forniti, come sarebbe d’obbligo, dal datore di lavoro». Anche le condizioni abitative, pur avendo superato la conformazione del ghetto, rivelano la persistenza dell’esclusione e dell’isolamento.