Brucia. Si, brucia la rabbia più delle fiamme. Sono passati ben 9 anni dalla rivolta, oramai nota, di Rosarno, ma nulla, davvero nulla è cambiato. La tendopoli, con le sue fatiscenze e i suoi roghi, è sempre là.
L’ennesimo incendio di qualche giorno fa nella tendopoli di San Ferdinando, vicino Rosarno, in provincia di Reggio Calabria, riporta, ancora una volta, la zona alle spalle del porto di Gioia Tauro sotto l’attenzione dell’opinione pubblica a nove anni dalla rivolta che del 7 gennaio del 2010, che vide contrapposti forze dell’ordine, cittadini e braccianti stranieri. Una situazione di abbandono, quella della tendopoli e delle zone occupate nei paraggi, che periodicamente sfocia in incendi che causano morti e feriti.
Ma è una ciclicità alla quale sembriamo assuefatti, nonostante le organizzazioni impegnate nella zona, fra le quali Medu, Msf e Amnesty International, denuncino gli inesistenti passi avanti compiuti.
La morte di un altro bracciante, Moussa Ba, cittadino senegalese di 29 anni, in Italia dal 2015 ma con un permesso di soggiorno scaduto per mancata presentazione della domanda di rinnovo, ci ha rapidamente portati al 2 dicembre 2018, quando il giovane Jaiteh Surawa, di origine gambiana, moriva anche lui carbonizzato nel rogo della sua baracca. Due giovani vite, due migranti, due corpi carbonizzati. Sembra una maledizione, quella del ghetto: risucchia le vite e le disintegra in polvere, per poi spazzarle via nel dimenticatoio.
Ma noi non possiamo dimenticare che esattamente un anno fa, il 27 gennaio 2018, in un altro maledetto rogo, sempre nello stesso posto, moriva anche Becky Moses, giovane donna nigeriana di 26 anni, “respinta” da un circuito d’accoglienza che non la voleva più. E prima ancora di Becky, sono bruciate le vite di Dominic e Marcus. E come loro tanti altri braccianti.
E così, la tendopoli della vergogna si conferma ancora una volta come una trappola mortale da cui partirà l’ennesima salma che dovrà rientrare nella sua terra lontana, per un ultimo viaggio.
“Ma perché il ministro dell’Interno da un anno promette “legalità”, ma non ha ancora mandato a San Ferdinando le proverbiali ruspe, mentre a gennaio ha inviato a sorpresa le camionette a Castelnuovo di Porto, come aveva fatto a novembre con il presidio Baobab al Tiburtino?” Si chiede giustamente un giornalista sulle colonne de Il Fatto quotidiano.
Perché sicuramente a lui non conviene. Risolvere la situazione di quell’inferno, potrebbe significare perdere consensi e voti nella Regione che lo ha eletto Senatore. Ma imputare la morte di Moussa Ba solo all’attuale ministro significa non fare buona informazione perché la cecità di Stato risale molto, molto addietro.
Come ricorda Silvio Messinetti su il Manifesto, “in tutti questi anni lo Stato non ha mai voluto smantellare questa vergogna. Ha preferito sbianchettare lo scempio, sostituendo le tende con i container ma senza offrire un tetto e una casa dignitosa ai lavoratori. Invece sono proprio il concentramento di povertà e la ghettizzazione a creare l’apartheid.”
Una storia che va avanti all’infinito, e ogni volta che c’è un nuovo dramma e un’altra vita si spezza, si minimizza, e anzi ci si dice “fortunati” perché poteva andare anche peggio. La verità è che c’è uno status quo da mantenere, ovvero il dominio delle mafie e di tutta la filiera dell’illegalità che ne consegue. Questo perché, altrimenti, chi raccoglierebbe i frutti negli agrumeti a basso costo e senza tutele?
Quindici giorni fa è nato il Comitato per il riutilizzo della case vuote della Piana di Gioia Tauro. Ne fanno parte anche Mimmo Lucano e padre Alex Zanotelli. Rilancia una proposta, anche questa, avanzata da tempo dagli attivisti che conoscono bene la situazione della Piana: l’inserimento abitativo diffuso, in case sfitte e beni confiscati per migranti e autoctoni, per superare la baraccopoli ed innestare un processo virtuoso di accoglienza.
La Rete dei Comuni Solidali si è offerta di ospitare all’interno dei progetti Sprar alcuni migranti della tendopoli, e ne ha accolti cinque all’interno dello Sprar di Gioiosa Ionica. Molti migranti che pur avrebbero diritto, in base alle leggi vigenti, ad entrare nei progetti di accoglienza sono restii ad accettare, perché allontanarsi da San Ferdinando, significherebbe perdere la possibilità di lavorare nei campi, sebbene sottopagati e in maniera irregolare.
Cambierà mai qualcosa a Rosarno? O si continuerà a morire nel ghetto e nell’indifferenza?