L’Europa si chiude ancora di più su se stessa. Servono a poco le parole espresse ieri da Angela Merkel di fronte al Parlamento europeo a Strasburgo. “Dublino è ormai superato”, ha dichiarato la cancelliera tedesca, in un discorso congiunto con il presidente francese Francois Hollande, in cui entrambi hanno ribadito che “l’Unione ha reagito troppo lentamente all’ondata di rifugiati” e che occorre “rivedere l’accordo di Dublino perché non possiamo chiedere ai paesi che sono alle frontiere dell’Europa di pagare per tutti gli altri: va sostituito con un sistema basato sulla solidarietà”.
Le scelte in cantiere oggi però sono altre. Un piano per rendere rapidamente effettivi i rimpatri – che sui quotidiani inglesi sono correttamente definiti deportations – di “quei migranti che non hanno il diritto di rimanere in Europa” è infatti uno dei punti su cui stanno discutendo i ministri degli interni dei paesi membri dell’Unione europea, riuniti da oggi, e fino a domani, a Lussemburgo. Un vero e proprio “piano europeo di azione sui rimpatri”, che definirà “le misure che dovranno essere prese dagli stati membri” in proposito, e le azioni da intraprendere “per rafforzare il ruolo di Frontex” in tal senso.
Come già previsto dai precedenti consigli europei, per facilitare i rimpatri è prevista la detenzione dei migranti in hotspot, strutture ai confini dell’Unione. Il più grande sarà quello di Lampedusa, già attivo in via sperimentale. “Devono arrivare rassicurazioni sul fatto che queste strutture non siano, in realtà, centri di detenzione”, ha affermato l’Alto commissario ONU per i diritti umani, esprimendo profonda preoccupazione al riguardo. Le persone verranno chiuse all’interno di questi centri durante la disamina della situazione personale, per capire se si tratta di “rifugiati” o “migranti economici”. In quest’ultimo caso, il rimpatrio sarà immediato, verso paesi considerati sicuri dall’Unione europea: tra cui, stando alle anticipazioni diffuse ieri dal quotidiano inglese The Times, potrebbero esserci paesi come il Niger, il Mali, l’Eritrea. Per verificare il livello di “sicurezza” di questi paesi è sufficiente leggere quanto scrive la Farnesina sul sito viaggiaresicuri.it.
Sempre secondo le notizie del Times, il piano europeo sui rimpatri si reggerebbe anche sulla minaccia di ritirare aiuti ed eliminare accordi commerciali con i paesi terzi che si rifiuteranno di collaborare. Misure considerate “deplorevoli e pericolose” dai deputati del Gue/Ngl, come sottolineato in una nota dall’europarlamentare Barbara Spinelli. “Se adottato, questo progetto equivarrebbe all’abolizione della Convenzione di Ginevra e, di fatto, alla fine del sistema di protezione internazionale per i rifugiati, come stabilito dopo la Seconda guerra mondiale”, ha aggiunto l’eurodeputata Cornelia Erns.
Il piano si inserisce in una visione più ampia fatta di espulsioni, rafforzamento e esternalizzazione delle frontiere: la strada, insomma, battuta da sempre dall’Unione europea a proposito della generale ‘questione dell’immigrazione’, al di là della retorica politica che elargisce costernazione mediatica in occasione di ogni strage di cui la società europea viene a conoscenza.
La nota che accompagna il meeting aperto questa mattina parla chiaro: il Consiglio dei ministri dell’interno discuterà del “controllo delle frontiere esterne” e dei “rimpatri”. Ancora una volta, non si parla del fatto che, a fronte di un panorama internazionale costellato di guerre, ma anche di discriminazioni, povertà e forti disuguaglianze economiche, forse varrebbe la pena prevedere un cambiamento delle politiche di ingresso. Le proposte avanzate più volte dalla società civile, da ong e associazioni, non vengono minimamente prese in considerazione dai rappresentanti politici chiamati a rispondere a una situazione il cui livello di sofferenza “ha raggiunto un punto mai visto in Europa dalla Seconda guerra mondiale”, come dichiarato da John Dalhuisen, direttore di Amnesty International per l’Europa e l’Asia centrale.
Il Consiglio Italiano per i Rifugiati (CIR), insieme alla campagna We move EU, in occasione del meeting europeo è tornato a chiedere l’apertura di canali di ingresso legali e sicuri per i rifugiati (online la petizione). “Abbiamo tutti visto le strazianti immagini, letto le storie e le notizie. Senza ulteriori azioni, la crisi dei rifugiati non può che peggiorare. Una crisi che non è solo sulle coste Europee – ricorda il Cir -, ma che è nella Siria devastata dalla guerra, nella Nigeria controllata da Boko Haram, nell’Eritrea schiacciata dalla dittatura. Senza canali sicuri legali di accesso alla protezione in Europa, le persone continueranno a morire sulle nostre coste e milioni di rifugiati vivranno nel limbo dei campi profughi. Chiediamo ai ministri di essere più ambiziosi”.
Ma l’ambizione delle istituzioni europee sembra andare proprio nella direzione opposta rispetto all’accoglienza. Oltre al controllo delle frontiere e ai rimpatri, l’Europa, nelle parole espresse dalla cancelliera ieri a Strasburgo, insiste sulla necessità di “aiutare i paesi vicini alla Siria che ospitano milioni di profughi, come la Turchia, che gioca un ruolo cruciale”. Nello specifico, tra Bruxelles e Ankara sarebbe in definizione un accordo che prevede l’apertura di sei campi profughi in Turchia, cofinanziati dall’Unione. Il “limbo dei campi profughi” da cui mette in allarme il Cir sembra dunque proprio quello in cui spera, e in cui investe, l’Unione europea, anche appoggiando paesi da cui le persone fuggono a causa delle politiche profondamente lesive dei diritti umani (come la Turchia rispetto alla minoranza kurda).
Tutto questo avviene mentre da ieri sei navi – una portaerei italiana, tre fregate (francese, britannica e spagnola) e due navi tedesche – sono schierate in acque internazionali, davanti alle coste libiche, per l’avvio della seconda fase, approvata lo scorso 14 settembre, della missione militare europea Eunavfor Med, che comprende l’invio entro fine ottobre di altre tre navi – da Belgio, Regno Unito e Slovenia -, quattro aerei e 1.300 uomini.
I mezzi militari hanno l’obiettivo di identificare e distruggere le imbarcazioni usate dai migranti per raggiungere l’Europa: un’operazione contro i trafficanti stando alle istituzioni europee, una misura che mette ulteriormente in pericolo i migranti secondo le associazioni a tutela dei diritti.
“L’esperienza ci ha purtroppo insegnato che quando vengono messe in atto azioni di deterrenza, ma non si creano al contempo delle alternative possibili, i viaggi dei rifugiati diventano ancora più disperati”, afferma il Christopher Hein, portavoce del Cir, rimarcando ciò che viene espresso da tempo da movimenti e ong.
L’inerzia delle istituzioni europee sarebbe solo imbarazzante, se non si riversasse sulla vita delle persone. Ma questa assenza di responsabilità politica fa vittime concrete. L’Oim (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni), citando Missing Migrant Project, ha diffuso gli ultimi dati relativi ai decessi dei migranti. Sono circa 3mila (2.988 per l’esattezza) le persone decedute dall’inizio dell’anno 2015, solo lungo le rotte del Mediterraneo.