Segnaliamo l’articolo di Francesco Ferri, pubblicato sul sito di Melting Pot.
Un racconto collettivo denso di emozioni ambivalenti: è questa la cifra complessiva delle prime settimane di accoglienza – in gran parte autogestita – in riferimento all’arrivo in riva allo Ionio di diverse migliaia di donne, uomini e bambini, giunti nel porto di Taranto accompagnati dalle navi della Marina Militare nell’ambito dell’operazione Mare Nostrum. Il carattere ambivalente delle emozioni occupa l’ampio spettro di possibilità che va dalla gioia – seppur precaria e problematica – dell’incontro, che ha ampiamente caratterizzato la partecipata accoglienza auto-organizzata, assumendo al tempo stesso, però, il sapore della diffusa indignazione con riferimento alle condizioni di ospitalità alquanto precarie.
L’utilizzo di strutture in disuso e ampiamente inadeguate, come un palazzetto dello sport e un ex mercato ortofrutticolo nel quartiere Tamburi, nelle quali – sotto un caldo cocente e in condizioni igienico sanitarie allarmanti – anche l’apporto di acqua e farmaci, nei primi giorni in particolare, è stato garantito da volontari e attivisti: questa è stata, e in parte continua ad essere ancora, la scarnissima portata dell’apparato umanitario di accoglienza predisposto per i migranti e le migranti nel capoluogo ionico.
E proprio qui – tra le mancanze istituzionali e l’esigenza di un’accoglienza il più possibile dignitosa – si inserisce con forza uno degli elementi centrali nel “caso Taranto”, capace di riarticolare la retorica dominante per la quale i termini con i quali leggere la questione dell’immigrazione siano necessariamente quelli della paura e della difesa: complessivamente, le cittadine e i cittadini di Taranto hanno autonomamente predisposto un sistema materiale di accoglienza – e un’ampia disponibilità alla relazione e all’affetto – tanto ampi e inaspettati quanto imprescindibili.
Proprio da qui sembra possibile ripartire, provando a far in modo che la gioia dell’incontro sia immediatamente compatibile con la produzione di ampi sguardi sul funzionamento complessivo del meccanismo dell’accoglienza, anche al di là del ruolo pur importante che il capoluogo Ionico sta assumendo in queste settimane.
Allo stesso tempo, un’attività altrettanto utile può risiedere nel tentativo di leggere ciò che sta avvenendo a Taranto come possibile paradigma per comprendere il cambiamento di fase nella gestione complessiva degli arrivi. Un elemento in particolare sembra qualificare la discussione: il sistema d’accoglienza (non) strutturato in riva allo Ionio sembra confermare quanto i due termini che caratterizzano la gestione del confine – la questione militare e il livello umanitario – siano strutturalmente contigui. In questo senso, venuto meno – temporaneamente e per ragioni di opportunità di governo del fenomeno – l’esigenza di una gestione militare dell’accoglienza, nello stesso tempo anche il profilo umanitario si è rapidamente dissolto. I centri di (non) accoglienza predisposti a Taranto non prevedono alcuno strumento di confinamento o di controllo: al contrario è stato molto spesso favorito il transito dei migranti verso altre destinazioni, anche tramite l’accompagnamento collettivo in bus e il conseguente abbandono nei piazzali delle stazione di Anagnina e di Rogoredo. Anche la gestione umanitaria, in particolar modo nelle prime settimane, con riferimento anche alle abituali procedure di accoglienza, si è contemporaneamente disgregata: basti pensare al ruolo fondamentale, dal punto di vista del coordinamento delle attività di aiuto, è svolto da un “gruppo facebook” di volontari denominato, appunto, “coordinamento aiuti Taranto”, con la materialità dell’assistenza informalmente delegata alla buona volontà della cittadinanza.
Il paradigma rappresentato in questi giorni dal caso Taranto può essere utile anche per leggere i cambiamenti di fase che sono in atto. L’accordo raggiunto tra Governo, Regioni, Comuni e Province nell’ottica di un piano per la gestione dei nuovi arrivi, che verosimilmente interesserà direttamente anche il capoluogo Ionico, annovera tra le novità annunciate l’esplicita previsione di hub regionali o interregionali che fungano da prima accoglienza e qualificazione.
Già dal punto di vista del lessico utilizzato, è necessario rigettare l’utilizzo di una terminologia propria del linguaggio delle logistica, quasi che la gestione dei processi di migrazione sia un problema da affrontare in termini di razionalità del trasporto e non dal punto di vista dell’ampiezza e della qualità dei diritti delle migranti e dei migranti.
Inoltre – e qui risiede un elemento potenzialmente fondamentale per qualificare la portata complessiva dell’intera vicenda – sarà necessario valutare quali siano le previsioni del Governo in relazione al preannunciato meccanismo di selezione, effettuato proprio nella fase hub dell’accoglienza, tra coloro ai quali è riconosciuta la protezione internazionale e che quindi possono successivamente accedere al sistema Sprar e gli esclusi da questa selezione rispetto ai non vengono precisate – ma è possibile provare ad immaginarlo – le prospettive alle quali andranno incontro.
Una configurazione del genere necessita, giocoforza, di una lettura complessiva della questione. Può risultare fuorviante – e addirittura funzionale al complessivo meccanismo di inclusione differenziale – produrre una discussione che valuti, nel qualificare le posizioni politiche da assumere, unicamente le caratteristiche logistiche del porto di Taranto, la sua posizione strategica sul Mediterraneo e la potenziale idoneità delle strutture del territorio ad ospitare il citato hub che effettui lo smistamento – previa selezione – delle migranti e dei migranti. Sembra necessario, al contrario, riflettere e mobilitarsi, anche a Taranto, per la qualità e l’ampiezza dei diritti delle migranti e dei migranti, rifiutando di assumere i temi della logistica come terreno di scontro e unico criterio possibile per leggere la portata della fondamentale sfida che sta investendo la città Ionica.