Settecento episodi di intolleranza per il 2014, con un trend in crescita per il 2015: è il preoccupante quadro fotografato da Cospe e diffuso oggi nel rapporto “L’odio non è un’opinione”. Si tratta della prima ricerca italiana su hate speech, giornalismo e immigrazione, realizzata nell’ambito del progetto europeo “BRIKCS” – Building Respect on the Internet by Combating hate Speech”. Uno studio che, tramite l’analisi di casi studio e interviste, ha coinvolto 4 direttori e caporedattori (Fan Page, Il Tirreno, l’Espresso, Il Post); 3 staff incaricati di community management (Il Fatto Quotidiano, Repubblica, La Stampa), 3 esperti di social media strategy, 3 blogger di testate nazionali, 2 esponenti di associazioni attive nel settore media e immigrazione (ANSI e Carta di Roma), 2 organismi pubblici di tutela (OSCAD – Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori e UNAR – Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali). E proprio dai dati registrati, la ricerca evidenzia come il fenomeno dell’hate speech sia in crescita. In particolare nel 2015, quando “i giornali europei hanno dovuto affrontare lo scenario di una delle più grandi crisi umanitarie senza riuscire, in gran parte, a restituire un’immagine corretta del fenomeno migratorio a livello globale e nazionale”, come evidenzia il Cospe. Che nel corso dell’analisi ha potuto constatare che “è proprio in simili contesti che si moltiplicano le espressioni di incitamento all’odio razziale nei confronti di rifugiati, migranti e minoranze”: in particolare nei forum dei giornali online, nei commenti a margine degli articoli, nelle pagine social delle testate nazionali e locali. Luoghi virtuali, difficilmente monitorabili, dove si propaga un fenomeno che coinvolge direttamente tutta la società, e che proprio per la loro natura risultano difficilmente monitorabili. La ricerca mette infatti in risalto le problematiche legate al mondo dell’informazione sul web e alle community virtuali, ponendo in particolare l’attenzione sull’apparente contrasto tra libertà di espressione e necessità di regolamentazione, dovere di informare e necessità di coinvolgere il lettore. “Quello che manca è una vera battaglia etica e culturale sui discorsi d’odio – ha sottolineato Giuseppe Giulietti, presidente del Fnsi, durante la presentazione, parlando di “falsa coscienza delle redazioni. Se si toccano questi temi subito si dice che si vogliono creare bavagli. Ma la tutela della libertà di informazione non possiamo esercitarlo solo quando questa colpisce gli ultimi”. Gli ha fatto eco Alessia Giannoni, ricercatrice del Cospe: “Le testate italiane non hanno una policy chiara rispetto a questi temi. Non solo: spesso considerano gravoso intervenire. Bisognerebbe, invece, rivedere il rapporto verticale testata lettori come succede in altri paesi”. Il riferimento è al Guardian, quotidiano inglese che ha deciso di bloccare i commenti automatici agli articoli che trattano di immigrazione e Islam. Un modello da cui prendere esempio, secondo Elisa Marincola, giornalista e membro dell’Associazione Articolo21, la quale ha sollecitato anche un “risveglio dell’Ordine per quanto riguarda le sanzioni da dare ai giornalisti”.
Alla prima fase di analisi, contenuta nella ricerca, seguirà la fase di sperimentazione. Il gruppo di lavoro che ha condotto lo studio sta infatti elaborando un decalogo per i social media manager. Inoltre, saranno previsti anche corsi di formazione per gli insegnanti e un toolkit multimediale.
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