Dal gennaio 2007 al marzo 2020, nel database online di sostieni.cronachediordinariorazzismo.org, abbiamo documentato, su un totale di 7.567 casi, ben 3.737 casi di “propaganda razzista”, dei quali 2.101 più strettamente legati all’“hate speech”, ai discorsi d’odio e di incitamento all’odio. Inoltre, secondo report fornito dal Dipartimento di pubblica sicurezza all’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce), ottenuto combinando le segnalazioni Oscad (Osservatorio per la Sicurezza Contro gli Atti Discriminatori) e i dati del ‘Sistema di Indagine-Sdi’, nel 2019 sul totale dei 1.119 reati di natura discriminatoria, 805 sono di matrice razzista o xenofoba. E di questi, 271 sono reati di incitamento all’odio e alla violenza, 152 sono reati di profanazione di tombe e 104 sono le violenze fisiche vere e proprie.
Ma cos’è l’hate speech? Proviamo a definirlo
I discorsi di odio sono delle manifestazioni di pensiero pubbliche e denigratorie che
• intendono suscitare una reazione o un’azione ostile, discriminatoria o violenta da parte degli interlocutori;
• incitano alla discriminazione, all’ostilità o alla violenza contro un individuo o un gruppo sociale determinato, identificato sulla base di pregiudizi e stereotipi negativi utili a inferiorizzare il gruppo bersaglio rispetto a quello di appartenenza;
• violano alcuni diritti fondamentali della persona: il diritto di eguaglianza, alla dignità umana, alla libertà, alla partecipazione alla vita politica e sociale.
E’ importante notare che per qualificare un messaggio come “hate speech”, non è sufficiente il suo contenuto, anche profondamente offensivo, ma occorre che tale messaggio sia pubblico e risulti finalizzato a suscitare nell’interlocutore un’azione ostile, discriminatoria o denigratoria. E’ proprio questa la difficoltà applicativa delle norme. Laddove non è sempre facile accertare l’intenzione, l’incitamento o l’incoraggiamento dell’autore del messaggio a odiare, discriminare, denigrare, fare violenza.
L’odio in rete e la sua banalizzazione e normalizzazione
La cronaca sempre più spesso riporta notizie di persone o gruppi aggrediti verbalmente con espressioni stigmatizzanti e discriminatorie sul web. A lungo andare, anche l’odio in rete è stato normalizzato e legittimato, con l’effetto di riprodurre a più livelli i pregiudizi e gli stereotipi verso i bersagli prescelti. In questo scenario, fenomeni complessi come quello migratorio, oltre a essere trattati con retoriche populiste e slogan semplicistici, sono oggetto di una facile speculazione, che genera confusione e disinformazione. Le intenzionalità di chi partecipa a questo processo di banalizzazione e normalizzazione sono diverse, così come le manifestazioni sono differenti. Vi sono gruppi che si rifanno esplicitamente a ideologie d’odio, ma molti che in rete partecipano a performance razziste (con un semplice like, una banale condivisione oppure essendone gli autori in prima persona), quando si apre con loro un dialogo, affermano di “aver solo fatto una battuta” e che “si stava scherzando”. Emerge dunque come la rete e le modalità comunicative dei social network favoriscano comportamenti poco responsabili, poco attenti alle conseguenze, spesso anche molto gravi, delle azioni. Nel linguaggio quotidiano contrapponiamo il reale al virtuale, veicolando l’idea che lo spazio digitale sia qualcosa di diverso da quello reale, un po’ meno vero, e che questo permetta dunque un atteggiamento meno attento alle conseguenze delle nostre azioni. Al contrario, la vita di ogni giorno smentisce questa netta contrapposizione. Infatti, il web va inteso come realtà segnata da proprie specificità, ma anche da rimandi e piene continuità tra online e offline. Quello che agiamo nel web è dunque reale. Siamo esseri umani definitivamente connessi, in una dimensione in cui offline e online non sono due dimensioni distinte ma si compenetrano “onlife”, secondo l’efficace espressione di Luciano Floridi.
Come si è evoluto e modificato il fenomeno in questi anni?
Nel 2011, il forum Stormfront.org ha cominciato sin da subito a mostrare al mondo intero di cosa potesse essere capace l’hate speech con le sue pericolose declinazioni, fuori e dentro la rete. Successivamente, l’attenzione si è spostata direttamente sui social network, quando si è giunti al culmine delle offese razziste in rete anche da parte di attori istituzionali. Eclatanti ed esemplari i casi di vittime illustri come Cecile Kyenge e Laura Boldrini, che sono state colpite da una pericolosa fusione virale fra razzismo e sessismo. Soltanto dopo il 2017, cominciano ad essere messi in campo i primi argini virtuali e reali al fenomeno, grazie allo sviluppo di numerose iniziative di contro-narrazione.
Alcuni esempi di counterspeech
Non possiamo non ricordare alcuni casi diventati virali e partiti su iniziativa anche di singoli cittadini, i quali nelle vesti di vittime o di testimoni dell’odio razzista in rete, hanno trovato un modo originale per raccontare l’accaduto e rovesciare persino lo stigma. Le tecniche usate in questa forma di viralità positiva sono varie e pur trattandosi di una sanzione social, essa pesa realmente su quanti hanno commesso gli atti di razzismo. Nel 2018, ricordiamo, ad esempio, un semplice post “virale” (ricordiamo il caso della studentessa musulmana Houda Latrech, aggredita e insultata nella metropolitana di Milano), una lettera postata sui social (come quella della signora Gabriella Nobile a Matteo Salvini, che racconta dei suoi figli adottivi, additati a scuola come ”negri” e atterriti all’idea di essere rimandati in Africa), un video-denuncia (come quello postato da Roland, studente nigeriano dell’Università di Perugia, che filma in diretta un’aggressione razzista nei suoi confronti da parte di una donna in un bar). Ma non possiamo dimenticare neanche la viralità di un post apparso su Facebook, in cui un utente denunciava la presenza di un uomo nero sprovvisto di biglietto a bordo di un treno Frecciarossa. Questo post è riuscito a ottenere una copertura organica clamorosa, arrivando a toccare 120 mila reazioni e più di 70 mila condivisioni. O ancora un post pubblicato sulla pagina Facebook di una 19enne di Ferrara e ripreso prima dall’Ansa e poi da tutta la stampa nazionale, che ha fatto il giro del web nell’arco di 24 ore: sul post, oltre cinquemila reazioni, quasi 500 commenti e quasi duemila condivisioni. Un post di denuncia, per un episodio di razzismo a cui la ragazza ha assistito a bordo di un Flixbus e che poi, in parte, l’ha anche vista protagonista in difesa del giovane senegalese vittima della discriminazione.
Le contro-narrazioni possibili
La contro-narrativa e la narrazione alternativa, diversamente dall’attività di censura e di rimozione dell’hate speech, sono sempre più spesso promosse da istituzioni, associazioni, fondazioni e altre realtà della società civile per il contrasto dell’hate speech online. Tuttavia, bisognerebbe privilegiare la produzione di narrazioni alternative rispetto alle contro-narrazioni. Laddove queste ultime mirano a decostruire le narrazioni esistenti dominanti e, in questo modo, rischiano di rafforzare le visioni del mondo che le sottendono, le narrazioni alternative, sono proattive e cercano di costruire una visione del mondo alternativa a quella degli “haters”. Le narrazioni alternative dovrebbero tenere conto dei temi principali che sono al centro della retorica politica violenta, senza restare subalterne alla narrazione da questa proposta, soprattutto in merito alle cause delle persistenti diseguaglianze economiche e sociali che caratterizzano le società europee e alle risposte politiche e istituzionali che potrebbero essere messe in campo. Fra le tante iniziative importanti, nell’ambito della promozione di una narrazione alternativa a quella dell’odio online, ne ricordiamo alcune più recenti. Nel marzo 2020, viene attivata la pagina Facebook MediaVox, un progetto di contrasto all’odio virale, che però non ha la pretesa di rispondere all’odio online in modo reattivo, polemico o aggressivo, ma piuttosto di veicolare e di produrre una informazione di qualità sul web, attirando l’attenzione su una narrazione della realtà diversa. Mentre, il 10 dicembre 2020, in occasione della Giornata Mondiale dei Diritti Umani, l’UNAR, durante il webinar “L’odio non è mai neutro: diritti umani e contrasto all’hate speech”, ha presentato lo spot istituzionale elaborato insieme ad una serie di video di contro-narrativa realizzati nella campagna di comunicazione e sensibilizzazione sul fenomeno nell’ambito del progetto CO.N.T.R.O..
La svolta dopo la morte di George Floyd
Ma senza dubbio, un grosso segnale di svolta è stato impresso, sempre nel corso del 2020, dall’uccisione di George Floyd il 25 maggio a Minneapolis. Mentre scendevano in strada centinaia di migliaia di persone in varie città del mondo per partecipare alle manifestazioni contro il razzismo ispirate dal movimento ‘Black Lives Matter’, abbiamo assistito anche a nuove forme di contro-narrazione e di reazione del tutto innovative per la rete. In questa occasione, a prendere posizione contro ogni forma di razzismo sono stati tutti i social network: Facebook, WhatsApp, YouTube, Instagram e Twitter, le cui immagini dei profili social si sono tinte di nero. LinkedIn ha annunciato di essere con la Black community e dalla parte di chi lotta contro il razzismo ogni giorno con un post sulla piattaforma. TikTok, social che non ha dimostrato di essere particolarmente aperto alla totale libertà di espressione, ha pubblicato una dichiarazione che è a tutti gli effetti a favore della lotta dei neri contro le violenze subite in America. Mentre Pinterest ha donato $ 250,000 per la ricostruzione delle imprese locali danneggiate durante le proteste e ulteriori $ 750,000 alle organizzazioni non profit che forniscono un supporto legale alle vittime di razzismo. Ai social hanno seguito l’impegno e la presa di posizione di numerosissimi brand, ma anche personaggi del mondo dello spettacolo, della moda, dello sport, della politica, ecc. hanno condiviso post sui social dopo la morte di George Floyd. Il 17 giugno, poi, Color of change, ong per i diritti civili negli Stati Uniti, insieme ad altre organizzazioni, ha lanciato la campagna Stop hate for profit. L’obiettivo dell’iniziativa consisteva nel chiedere agli inserzionisti di Facebook di sospendere temporaneamente la pubblicità dei propri prodotti sul popolare social network, in modo da convincere Facebook ad affrontare finalmente il razzismo. Oltre a Coca Cola hanno aderito Unilever e Verizon, oltre a marchi come Ben and Jerry’s, Patagonia e North Face. Tutti si sono impegnati a fermare le pubblicità sui social media per almeno un mese a partire dal primo luglio. In effetti, i primi risultati di questa pressione social-mediatica, si sono visti pochi giorni dopo, il 19 giugno, quando Facebook, per la prima volta, ha oscurato un post di Trump giudicato potenzialmente in grado di istigare all’odio. Cosa che aveva già fatto anche Twitter, sempre nei confronti di un cinguettio del presidente americano, oscurandone parzialmente un tweet in cui commentava proprio i disordini di Minneapolis. Salvo poi arrivare, nel gennaio 2021, alla chiusura vera e propria degli account di Trump, segnando, di fatto, una svolta epocale e intraprendendo, in questo caso, anche un ruolo decisionale in termini politici. Ma soprattutto, creando un notevole precedente di cui questi colossi social dovranno dar conto.
Altre possibili strategie da mettere in campo
Quella del razzismo virale dentro e fuori la rete è ovviamente una storia complessa e che corre troppo veloce. Non si risolverà certo grazie a interventi e campagne di comunicazione e sensibilizzazione da parte di brand o personaggi famosi, ma la loro è una voce in più che si unisce ad un coro di protesta che cerca di non farsi zittire, amplificando l’efficacia della lotta su più livelli e raggiungendo, così, un pubblico molto più ampio. Tuttavia, se da un lato necessitiamo di una rigorosa sanzione dei discorsi razzisti, insieme alla produzione di un racconto “alternativo” o di forme di protesta innovative e anch’esse virali, è assolutamente indispensabile, dall’altro lato, far strada alla consapevolezza che senza mettere in discussione le basi strutturali del razzismo, tutta l’enfasi posta sulla lotta contro l’hate speech rischia di diventare un mero esercizio di retorica. Emerge, quindi, da un lato l’esigenza di un impegno contro i discorsi razzisti che sia specifico, trasversale, coordinato, multidimensionale e capace di coinvolgere in una strategia comune tutti gli attori rilevanti; dall’altro appare indispensabile riorientare il sistema economico e sociale nel suo complesso nella direzione di una riduzione delle diseguaglianze e di una maggiore giustizia sociale. Cruciale sembra anche il rilancio di un dibattito pubblico partecipato per discutere e avanzare idee alternative su alcuni temi e concetti chiave: identità, cultura, cittadinanza, comunità, eguaglianza, diritti umani, benessere, sicurezza, legalità, percezione.
Paola Andrisani
Qui il link al video prodotto da Lunaria nell’ambito del Progetto Pinocchio