In questi giorni, l’ormai noto abbandono del campo da parte del Milan in seguito ad alcuni cori razzisti ha fatto salire alla ribalta delle cronache la presenza del razzismo negli stadi italiani: una presenza davvero troppo frequente e persistente, e troppo tollerata.
Ma lo sport, sebbene sia generalmente considerato un’opportunità di formazione, crescita personale e di socializzazione, a volte può diventare esclusione e discriminazione. E non solo a causa degli episodi che sono stati – giustamente – ampiamente trattati in questi giorni dai media.
Esiste in Italia una realtà intollerabile e lesiva, forse meno discussa dai mezzi d’informazione, ma molto conosciuta da tanti ragazzi e ragazze. In Italia, infatti, a moltissimi giovani non è consentito svolgere attività agonistica per una questione puramente burocratica, che per molte persone rappresenta una realtà quotidiana dolorosa e incomprensibile.
Ci scrive un lettore, allenatore di una piccola squadra di calcio giovanile, raccontando la storia di D., un bambino di 9 anni che frequenta la quarta elementare, nato in Italia da genitori di origine straniera. Dopo quattro mesi di allenamenti, per D. non è ancora possibile disputare alcuna partita del campionato provinciale pulcini. Perché? Perché il bambino non risulta tesserato alla Federazione Calcio. D., come ci racconta il suo allenatore, non può giocare le partite con i suoi compagni perché il permesso di soggiorno di uno dei genitori – uno dei documenti richiesti dalla Federcalcio – risulta scaduto. Un’esclusione che sicuramente non riesce a comprendere D. a cui, “tutti i venerdì al momento della convocazione gli si arrossano gli occhi, non riesce a capire il perché di tutte queste lungaggini e complicazioni”.
Non lo capiamo nemmeno noi il perché. Come giustamente si chiede l’allenatore, può essere una federazione sportiva più rigida della scuola? Può lo sport divenire luogo di esclusione?
La storia di D. è uguale a quella di moltissimi, troppi, altri ragazzi e ragazze. Se per tesserare un giovane di cittadinanza italiana sono sufficienti la dichiarazione dei genitori ai fini della privacy e il certificato medico, per i figli di cittadini di origine straniera le complicazioni sono tantissime, “talmente tante – ci spiega il lettore – che generalmente questi bambini non possono mai partecipare alle attività se non dopo diversi mesi dal loro avvio”. Considerando la situazione di D., l’allenatore afferma: “Mi sembra assurdo che un bambino che può andare la mattina a scuola elementare non può venire il pomeriggio a giocare a pallone o partecipare la domenica alla partita per colpa di lungaggini burocratiche e\o procedure complicatissime”.
Una situazione che riguarda molti minori, e che si complica nel caso in cui si salga di livello agonistico. Per disputare i campionati, gareggiare con la maglia della Nazionale o entrare a far parte di società sportive militari, è necessaria la cittadinanza italiana. E per ottenerla “lo straniero nato in Italia, che vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della maggiore età, può dichiarare di voler eleggere la cittadinanza italiana entro un anno dalla suddetta data”, come recita il sito del Ministero dell’Interno. Dopodiché, possono passare anche diversi anni perché questo riconoscimento, finalmente, arrivi. Meccanismi estremamente farraginosi, che escludono molte persone da competizioni di vario livello.
Una situazione denunciata anche dalla campagna “l’Italia sono anch’io”, che evidenzia in una nota: “Considerato il grande rilievo che assume l’attività sportiva per la crescita e la formazione di un giovane, appare un grande limite ai nati in Italia da genitori stranieri quello di non potersi iscrivere a sport agonistici in quanto cittadini non italiani”.
Non possiamo che rilanciare l’appello della campagna e associarci alle parole dell’allenatore di D., sperando venga presto presa in considerazione una modifica delle norme per permettere a tutti i minori di beneficiare di un’attività universalmente riconosciuta come importante per la formazione della persona, come ricordato anche dall’Unicef e dalla Carta ONU dei diritti dei ragazzi allo sport, ratificata nel 1992.