La Corte Costituzionale, con sentenza n. 59 depositata venerdì 23 marzo 2018, ha accolto il ricorso del Tribunale di Bergamo, che aveva sollevato il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nella deliberazione di “insindacabilità” (ai sensi dell’articolo 68, primo comma, della Costituzione) adottata dal Senato, il 16 settembre 2015, nei confronti delle parole espresse dal senatore Roberto Calderoli verso l’allora Ministra per l’integrazione sociale nel Governo Monti (novembre 2011 – aprile 2013), Cècile Kyenge Kashetu.
I fatti risalgono al 13 luglio 2013 (ne scrivevamo qui), quando durante un comizio, tenuto alla presenza di una vasta platea di circa 1.500 spettatori, nell’ambito della festa indetta dalla Lega Nord a Treviglio, il senatore leghista aveva attribuito alla ministra le “sembianze di un orango” e le aveva detto che poteva fare il ministro, si, ma in Congo, “non in Italia, perché se c’è […] bisogno di un Ministro per le pari opportunità per l’integrazione, c’è bisogno là, perché […] se vedono passare un bianco là gli sparano”.
Dichiarazioni che poi sono state ampiamente diffuse da organi di stampa a tiratura nazionale (vedi anche qui). Due anni dopo, il Senato ha deliberato che le opinioni del senatore erano “espresse da un membro del Parlamento nell’esercizio delle sue funzioni” e, dunque, “insindacabili” (esprimevamo molta preoccupazione nella legittimazione di tali parole in questo pezzo qui).
La Corte Costituzionale, invece, con la sua ultima sentenza, stabilisce che le opinioni espresse da Calderoli non hanno “alcun nesso funzionale con l’esercizio dell’attività parlamentare”. E la prerogativa dell’insindacabilità “non può essere estesa sino a ricomprendere gli insulti“. Oltretutto, il Senato si è espresso “sulla qualificazione giuridica del fatto storico, invadendo così un campo costituzionalmente riservato al potere giudiziario”.
Nel motivare la decisione, la Corte richiama alcuni criteri utili per interpretare in modo corretto l’istituto dell’immunità parlamentare, che è applicabile solo alle attività tipiche della “funzione parlamentare” e a quelle che di esse possano considerarsi proiezione esterna alle sedi del Parlamento. Gli atti svolti fuori dalle sedi istituzionali sono insindacabili solo se e nella misura in cui siano identificabili come attività parlamentare. La Corte Costituzionale, a tale proposito, richiama anche la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. La quale, nell’affrontare il tema della “insindacabilità” delle opinioni espresse da membri del Parlamento a salvaguardia di prerogative inerenti lo specifico munus proprio della carica, opera una netta distinzione tra le dichiarazioni rilasciate “intra moenia”, vale a dire nello specifico esercizio di quelle funzioni, e quelle rese fuori dalla sede tipica (“extra moenia”), e perciò stesso in assenza di un legame evidente con l’attività parlamentare.
La conclusione più evidente è che una diversa interpretazione della prerogativa dell’insindacabilità ne dilaterebbe a tal punto i suoi confini, generando un’immunità non più soltanto funzionale ma, di fatto, sostanzialmente “personale”, a vantaggio indiscriminato di chi sia stato eletto membro del Parlamento.
Il senatore Roberto Calderoli, dunque, imputato del reato di diffamazione aggravata (tanto perché l’offesa è stata recata mediante comizio, quale particolare mezzo di pubblicità, quanto perché sorretta da finalità di “discriminazione razziale”), dovrà, quindi essere giudicato dal Tribunale di Bergamo come un qualsiasi cittadino. Con buona pace di tutti.