Roma. 18 settembre 2014. A Torpignattara, Daniel, un ragazzo minorenne, picchia a morte, incitato dal padre che nel frattempo gli intima dalla finestra di massacrarlo, Muhammad Shahzad Khan, cittadino pakistano. L’omicidio si consuma in pochi minuti sotto gli occhi di alcuni vicini di casa. All’arrivo della Polizia, Daniel ammette di aver colpito l’uomo al volto con un pugno. Il ragazzo viene arrestato con l’accusa di omicidio preterintenzionale e trasferito al carcere minorile. I carabinieri escludono il movente razzista. Il quartiere si spacca in due: da una parte i sostenitori di Muhammad, dall’altra quelli di Daniel. Ad ottobre del 2014, la Procura di Roma iscrive nel registro degli indagati anche il padre di Daniel, per poi arrestarlo con l’accusa di concorso in omicidio volontario, aggravato dall’aver indotto il figlio minorenne a commettere il delitto. Da questo momento in poi, vanno avanti due processi: uno contro l’autore materiale, Daniel, l’altro contro il padre, che concorre, secondo l’accusa, all’omicidio. Nel maggio del 2018 giunge la sentenza definitiva. Il contributo si focalizza, al di là della vicenda giudiziaria, anche sulla enfatizzazione di alcuni elementi che hanno contribuito ad avvalorare la stigmatizzazione e la criminalizzazione dei migranti, oltre che la retorica della paura, e allo stesso tempo hanno concorso a tratteggiare un quadro distorto e mistificatorio del quartiere romano in cui è stato compiuto l’omicidio. Scarica la scheda qui.