Delimitare i contorni dell’hate speech non è semplice, soprattutto quando l’ambito di esplorazione è quello del web, con i suoi confini sfumati. Con l’avvento di Internet e lo sviluppo dei social media, è cambiata l’idea stessa di discussione pubblica non più popolata solo da soggetti istituzionalmente preposti alla produzione dell’informazione, ma anche, e in modo crescente e pervasivo, da soggetti individuali, non professionisti, che costituiscono una galassia di fonti informative “informali”. Nella diffusione delle retoriche ostili, le responsabilità sono dunque molteplici, trasversali e non sempre facilmente identificabili e sanzionabili. Il ricorso alla rete come vettore dell’incitamento all’odio solleva dunque ancora oggi domande inedite e impone la ricerca di risposte adeguate a livello giuridico, politico, istituzionale, sociale, culturale e mediatico. Tali risposte purtroppo non riescono a stare al passo con le rapide mutazioni del fenomeno, come ci ricordano le vicende relative alla chiusura del sito Stormfront, le tempeste di insulti scagliati contro Laura Boldrini e Cecile Kyenge e i conflitti legali intercorsi tra alcuni dei social network più importanti e alcuni movimenti di estrema destra. Eppure, alcune vicende recenti mostrano che talvolta la macchina del fango xenofobo e razzista può incepparsi di fronte a narrazioni alternative non subalterne, autonome, creative e intelligenti. Tra le storie più esemplari, quella di Carola Rackete. Scarica qui l’intero contributo.