Due imbarcazioni sono partite dalle coste libiche alle prime ore del primo settembre. Ciascuna con più di 160 persone a bordo di diverse nazionalità, tra cui sudanesi, maliani, nigeriani, camerunesi, ghanesi, libici, algerini ed egiziani. Uno dei due gommoni si è fermato per un guasto al motore, ma non è subito affondato, e i migranti sono stati soccorsi il giorno dopo dalla guardia costiera libica. Il secondo ha continuato la sua rotta verso l’Europa ma, dopo poche ore, ha cominciato inesorabilmente a sgonfiarsi. A bordo in pochi avevano il salvagente, e ancora meno erano in grado di nuotare.
Il bilancio di questa nuova strage del mare è enorme. Almeno un centinaio di dispersi, tra cui 20 bambini e due gemellini di soli 17 mesi. Due i corpi senza vita recuperati e 276 sono i migranti soccorsi dalla guardia costiera libica e riportati indietro. Nell’inferno.
I sopravvissuti sono stati fatti sbarcati a Khoms, 120 km a est di Tripoli, dalle motovedette libiche che li hanno poi affidati alle cure dello staff di Medici senza frontiere. All’arrivo i medici hanno trattato i sopravvissuti per gravi ustioni chimiche fino al 75% del corpo. Gli altri superstiti sono stati portati in un centro di detenzione sotto il controllo delle autorità libiche. E la notizia del naufragio è stata diffusa solo ieri proprio da Medici senza frontiere, grazie alle testimonianze dei superstiti al naufragio raccolte dalla loro operatrice in Libia, Sara Creta.
Soltanto pochi giorni fa, Paula Barrachina, portavoce dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Acnur) in Libia, ha denunciato che la vita di migliaia di persone è a rischio e che l’insicurezza sta mettendo in fuga anche le poche organizzazioni non governative presenti (anche su terra, dopo quelle in mare), e che, a causa delle politiche migratorie europee di chiusura, diminuiscono i viaggi della speranza, ma cresce il rischio di incidenti mortali.
Se il numero totale degli arrivi via mare è diminuito, il tasso di mortalità delle persone che partono è nettamente cresciuto. Nel Mediterraneo centrale una persona è morta o scomparsa ogni 18 che hanno cercato di raggiungere l’Europa, tra gennaio e luglio 2018 (ne parlavamo qui).
Da fine agosto, lo ricordiamo, a largo di Tripoli, non c’è più neanche una Ong a soccorrere i barconi in avaria. Anche l’ultima nave di Proactiva Open Arms, l’organizzazione non governativa spagnola, più volte finita al centro delle invettive del Ministro dell’Interno, ha lasciato il Mediterraneo centrale. La nave Aquarius, l’imbarcazione di Sos Mediterranée e di Medici senza Frontiere, a cui sempre il Ministro dell’Interno ha negato l’attracco con 630 naufraghi a bordo, risulta ancorata a Marsiglia. A Malta, sotto sequestro, ci sarebbero invece altre tre navi di salvataggio: la Lifeline, la Sea Watch e la Seefuchs.
Salvare vite in mare è tornata a essere competenza esclusiva delle guardie costiere dei singoli Paesi. Soprattutto quella libica, malgrado sia stata più volte messa all’indice proprio dalle ong per un uso spregiudicato della forza nei confronti dei migranti.
Purtroppo, con le ong dal Mediterraneo non spariscono solo soccorritori, ma vengono meno anche occhi e orecchie “indipendenti” che non potranno più vigilare su abusi e violenze, che potranno essere perpetrati in modo indiscriminato.
Sebbene la “propaganda” voglia farci credere il contrario, ci sono dunque equazioni che non funzionano. Meno sbarchi, non significano meno morti. E meno ong presenti in mare a presidiare, non si traducono in meno partenze e in meno trafficanti.
La morte di 100 persone ce lo ricordano ancora una volta.