Dopo l’uccisione di George Floyd il 25 maggio scorso a Minneapolis, a causa delle violenze subite dopo essere stato arrestato da quattro agenti di polizia, sono centinaia di migliaia le persone scese in strada nelle ultime due settimane in varie città del mondo per partecipare alle manifestazioni contro il razzismo ispirate dal movimento ‘Black Lives Matter’ (Le vite dei neri contano, ndr). In ginocchio, con il pugno alzato, in memoria di George Floyd, 8 minuti e 46 secondi di silenzio.
Purtroppo, non abbiamo potuto essere presenti fisicamente in quelle bellissime piazze, ma le abbiamo seguite e abbiamo accolto con gioia e stupore questa ben precisa volontà di esporsi nella lotta contro il razzismo sperimentando anche “nuove modalità”.
Eppure quel pugno alzato e quel ginocchio a terra arrivano da lontano. Moltissime delle persone che erano nelle piazze in questi giorni non erano neanche nate nell’ottobre del 1968. Ai giochi olimpici, Tommie Smith e John Carlos salgono sul podio con il pugno alzato in segno di protesta. Dietro quel gesto c’è la battaglia per i diritti civili degli afroamericani, la stessa che va in scena oggi negli Stati Uniti dopo la morte di George Floyd.
A oltre cinquant’anni di distanza, gli Stati Uniti stanno vivendo in questi giorni una sorta di nuova primavera di lotta. E a riguardo ha preso posizione anche Colin Kaepernick. Lui, l’ex quarterback di San Francisco, che fa parte di quegli atleti che, proprio come Smith e Carlos nel 1968, sono stati capaci di anticipare i tempi, mettendo in gioco le loro stesse carriere pur di difendere i loro ideali. Nel 2016, aveva iniziato una semplice ma virale forma di protesta, mettendo un ginocchio a terra durante l’esecuzione dell’inno statunitense prima delle partite della Nfl. Un gesto solitario, che nel giro di poche settimane ha trovato l’adesione di centinaia di sportivi di ogni disciplina, ma non l’appoggio del presidente Donald Trump il quale, aveva chiesto esplicitamente il licenziamento del giocatore, così come oggi ha minacciato l’intervento dell’esercito contro i manifestanti.
Un problema consolidato e sistemico quello del razzismo dunque. E oggi ha preso forma il risveglio delle coscienze di molte persone comuni, in grandissima parte giovani e giovanissime, quelle che ogni giorno vedono il razzismo che striscia e serpeggia anche nei più piccoli gesti quotidiani. Si sono riappropriate di un pezzo di storia e di lotta (oltre che di alcuni gesti) e li hanno riadattati al momento.
E cosi, anche in Italia, in tanti e tante, soprattutto ragazze e ragazzi molto giovani, molti figli di nativi e figli di migranti, hanno gremito le piazze di numerose città, piccole e grandi, in solidarietà con la rivolta e le mobilitazioni in corso in tutti gli Stati Uniti d’America, ma anche per dire che il razzismo, anche quello istituzionale, e le violenze della polizia ci sono anche qui, e per questo si deve lottare anche in Italia come in tutto il mondo. Molti gli interventi, in gran parte spontanei, di giovani che non appartengono ad alcuna organizzazione, e tantissimi gli striscioni o i cartelli autoprodotti, che hanno reso belle queste piazze.
Manifestazioni spontanee e trasversali diverse da quelle che conosciamo, per tanti motivi. E’ stato il ritorno in piazza dopo i mesi del lockdown e dell’emergenza Covid. Anche a Roma, nella stessa piazza che ha visto la sfilata degli arancioni il 2 giugno e nello stesso fine settimana segnato dalla parata degli ultrà e dell’estrema destra a Circo Massimo. Le piazze sono state composte, dignitose, pacifiche e colorate, nel rispetto della distanza di sicurezza e con le mascherine. Non c’erano politici, vip, stelle dello spettacolo, non c’era neppure il palco. Ma non sono state piazze anonime, anzi. Forse si è trattato di una delle più intense manifestazioni degli ultimi anni, altamente “politica”, nel senso più puro, perché convocata per tutte e tutti e nell’interesse di tutti.
A Milano, la folla si è mossa in un corteo assolutamente pacifico fino a via Zuratti, per ricordare una vittima della violenza razzista milanese, la cui storia ricorda molto i crimini della polizia americana. Quella del diciannovenne Abdoul Guiebre, per gli amici Abba, accusato di aver rubato dei biscotti, ucciso a sprangate nel settembre 2008 dai proprietari del negozio che gli urlano “sporco negro”. Anche l’on. Laura Boldrini e altri deputati si sono inginocchiati nell’Aula della Camera in memoria di George Floyd, nel corso di un intervento di fine seduta, ribadendo, anche in una sede istituzionale e non in una piazza, un “no forte e chiaro contro ogni forma di discriminazione”. “Il razzismo – ha detto Boldrini- è presente anche nel nostro Paese e abusi di potere sono accaduti e accadono anche da noi” (si veda il video qui).
La differenza delle piazze anti-razziste di queste settimane è nella sua “qualità”, più che nei numeri. La piazza di destra e di estrema destra punta tutto sul disagio sociale e scommette sulla cosiddetta “bomba sociale” pronta ad esplodere, per strumentalizzare ogni angolo di malcontento e di disperazione e per fomentarlo. Dal lato opposto, c’è il ritorno in piazza di un’altra Italia, che protesta per i diritti di tutti. Si manifesta per dire che se togli il respiro a una persona, è tutta la democrazia che soffoca. In tutto il globo.
E nel mezzo, fra le due piazze, si colloca il vuoto assoluto della politica. La protesta sociale non ha in questo momento alcuna rappresentanza. Non la rappresentano né i partiti, né i sindacati e nemmeno le organizzazioni sociali strutturate. Il senso dato dalle piazze va ben oltre la mera protesta e i banali distinguo fra Italia e USA proposti da alcuni mezzi di informazione, oltretutto fuorvianti e decontestualizzati.
“Iniziate da casa nostra, iniziate da qui: da quello che succede ai nostri figli tutti i santi giorni, dall’indifferenza a chilometro zero. Prima di dare lezioni agli americani su cos’è la civiltà, iniziate da qui” ha gridato a piazza del Popolo a Roma la stilista Stella Jean. “Questa piazza ci responsabilizza” ha urlato un giovane da uno dei tanti palchi improvvisati e itineranti delle piazze italiane, auspicando che l’ondata di indignazione suscitata dalla brutalità della polizia e dal razzismo negli Stati Uniti, siano anche uno slancio per cambiare le leggi discriminatorie italiane. In primo luogo, con una riforma della legge sulla cittadinanza.
E d’altro canto, come altro possiamo definire un Governo che collega ad un contratto di lavoro (spesso anche pagato a caro prezzo) la possibilità di soggiornare regolarmente sul suolo italiano in piena pandemia?
“I can’t breathe”, non riesco a respirare, le ultime parole di George Floyd prima di essere soffocato a morte. Ma non si respira anche quando si muore in mare, come i migranti che ogni giorno affogano nel Mediterraneo (si veda qui, in ordine di tempo l’ultimo naufragio documentato), così come non si respira nei campi, dove i migranti vengono sfruttati e disumanizzati per pochi soldi durante le campagne stagionali (si vedano qui gli esiti di una recentissima inchiesta sul caporalato e sfruttamento fra Calabria e Basilicata).
“Non si può morire per un po’ di melanina in più” recitava uno dei tanti cartelli di protesta. Il fatto è che né i diritti né le vite di tutte e tutti possono essere una questione di “sfumature” di colore.
E gli otto minuti e quarantasei secondi di silenzio si trasformano in assordante rumore.
Otto minuti e quarantasei secondi di silenzio servono a risvegliarci dall’assenza di un dibattito politico proiettato verso il futuro. E servono a ricordarci che quel vuoto va necessariamente colmato. E sebbene siano trascorsi 52 anni da quel pugno alzato verso il cielo di Città del Messico, c’è ancora un enorme e disperato bisogno di gesti come questo. C’è ancora un enorme bisogno di fare la cosa giusta.