Il dato è degli ultimi giorni di agosto: le rimesse dei migranti nei Paesi in via di sviluppo hanno superato ogni altra forma di risorsa proveniente dall’estero: investimenti diretti, aiuto allo sviluppo, flussi di capitale. La crescita del numero di persone che non vivono nel loro Paese tra il 1990 e il 2019 ha portato la cifra che i migranti spediscono a casa a circa 690 miliardi di dollari all’anno. Per alcuni Paesi si tratta di un terzo del Pil. Le rimesse vanno in Asia e in America Latina, con India, Cina e Messico a occupare i primi tre posti come collettori di risorse guadagnate dai migranti. Filippine ed Egitto, per parlare di Paesi da cui provengono anche immigrati in Italia, occupano pure i primi posti.
Nel 2018 le rimesse verso l’Africa sono aumentate del 9%. Cosi spiega la Banca Mondiale in un rapporto pubblicato ad aprile.
Si tratta di dati importanti che tornano utili per discutere del tema, molto in voga da qualche anno a questa parte, che chiameremo “aiutiamoli a casa loro”. Secondo l’Ocse gli investimenti diretti nel mondo sono diminuiti della metà rispetto al 2008, con un calo più sostanzioso da parte dei Paesi Ocse e dell’Unione europea.
Al contempo l’aiuto allo sviluppo è cresciuto e questo è un dato positivo, ma in questo dobbiamo includere l’aiuto alimentare e quello per le emergenze, che sono aumentate. L’aiuto allo sviluppo è comunque una percentuale molto piccola di Pil dei Paesi Ocse, europei o anche delle nuove potenze economiche come la Cina, non comparabile agli investimenti esteri. Insomma, la crescita dell’aiuto non compensa il calo degli investimenti dovuto a diversi fattori: guerre commerciali, nazionalismi crescenti, crisi e, di recente, segnali di recessione.
I flussi di rimesse sono un vettore della globalizzazione (che ci piaccia o meno) e, con il calo degli investimenti esteri nei Paesi che hanno aperto e adattato le loro economie in maniera da divenire trainate dall’export, diventano cruciali per quei Paesi stessi. Anche queste, naturalmente, soffrono del ciclo economico: quando, ad esempio, l’Europa entra in recessione, da alcuni Paesi il flusso di risorse provenienti dai Paesi sviluppati verso quelli in via di sviluppo tende a calare – molto dipende dai settori in cui gli immigrati vengono impiegati: dai Paesi produttori di petrolio c’è un calo quando cala il prezzo del petrolio, nei Paesi dove gli immigrati sono impiegati nei servizi alla persona, le cose cambiano un po’ meno.
Dall’Italia nel 2018 sono partiti 6,2 miliardi. Importante, alcuni Paesi stanno pensando di emettere titoli di Stato per le varie diaspore che servano a finanziare infrastrutture. Gli emigrati tendono a essere meno esigenti di un gestore di fondo di investimenti e sono potenzialmente degli acquirenti di questi buoni. Che servono dunque, se gestiti in maniera corretta, a finanziare lo sviluppo dei loro Paesi. Non è la soluzione al sottosviluppo, come per i Paesi occidentali in crisi demografica, l’immigrazione non è l’unica soluzione per riempire le caselle che rimarranno vuote nei prossimi decenni (servono politiche di welfare e del lavoro vere che contrastino le diseguaglianze economiche e sociali e facciano in maniera tale da rendere, ad esempio, meno difficile fare figli e lavorare).
Ma in ogni caso, le rimesse e il lavoro dei migranti nei Paesi in cui questi sono andati a vivere, aiutano casa loro più degli investimenti esteri o dell’aiuto allo sviluppo.