Carola Rackete è libera. E di questo non possiamo che gioire. Tuttavia, la vicenda della Sea Watch 3 prima, e quella legata alle sorti della sua capitana poi, sono riuscite a mostrare il peggio dell’hate speech e delle fake news, sintetizzando abilmente odio e contenuti in modo “impeccabile”. E questo è accaduto tanto con affermazioni, dichiarazioni e post da parte di esponenti politici (soprattutto dell’attuale governo) quanto da parte delle persone comuni, le stesse che poi frequentano abitualmente anche i social, dove, passando dalla vita reale a quella virtuale, finiscono per trasformare antiche frustrazioni in messaggi violenti ben celate da uno schermo e da una non più di tanto anonima tastiera.
Sono stati giorni concitati, è vero. E oltretutto abbiamo avuto sempre l’impressione di non riuscire a stare mai al passo degli haters, che sono riusciti ad andare più veloci della notizie stesse. Sia offline che online.
In un report di prossima pubblicazione, redatto da Lunaria, nell’ambito del progetto Words are stones (titolo evocativo e quanto mai pregnante in questa vicenda), abbiamo sottolineato come l’evoluzione del dibattito pubblico abbia visto crescere in modo significativo la presenza di espressioni molto aggressive e stigmatizzanti nelle diverse sfere del dibattito pubblico. “Nel 2018 – evidenziamo nel report – le conseguenze di queste trasformazioni sono emerse con particolare evidenza in Italia nel corso della campagna elettorale che ha preceduto le elezioni politiche del 4 marzo, ma hanno continuato a influenzare il dibattito pubblico anche nei mesi successivi, tanto da suscitare l’attenzione e la riflessione di molti commentatori, studiosi e giuristi sul ruolo svolto dalla propaganda politica discriminatoria, stigmatizzante e troppo spesso denigratoria e offensiva, in particolare nei confronti dei migranti, dei richiedenti asilo, dei rifugiati e dei rom. Il tema continua ad essere di assoluta attualità e rilevanza anche nel 2019, anno in cui si sono svolte le elezioni europee”. Nel 2018, Lunaria ha documentato 628 casi di discriminazione e di violenza razzista. Ben 400 casi di violenza verbale, dei quali 180 più strettamente riconducibili all’hate speech, nelle sue varie sfaccettature.
Il discorso d’odio, come si diceva, è sinuoso e si adatta rapidamente a quel che accade, cambiando di volta in volta il “bersaglio” degli insulti. E così è accaduto che, a proposito dell’ultima vicenda della Sea Watch, dai discorsi violenti nei confronti dei cosiddetti “buonisti” e delle ong che “traghettano” i migranti, l’odio è stato rivolto contro i migranti a bordo della nave.
Successivamente, dopo giorni di derisione e scherno nei loro confronti, ecco che viene trovato “magicamente” un nuovo capro espiatorio: la capitana Carola Rackete, che ha “osato” sfidare il Governo italiano valicando l’invalicabile confine. E d’altro canto, anche la notizia della sua liberazione sta diventando, in queste ore, un “motivo” di titoli, post e commenti violenti.
Atto primo: il razzismo
Ovviamente non si è arrivati a tanto livore da un giorno all’altro, ma c’è stato un ampio scenario preparatorio di accanimento mediatico suddiviso in atti. Dalla “sbruffoncella” del ministro dell’Interno, all’insistenza con cui i giornali di destra (e non solo) hanno sottolineato che Carola non sarebbe altro che una “figlia di papà” oppure “una pirata” (ad esempio, “magistrale” sintesi in “Carola Rackete, pirata eroina della sinistra che gioca a fare il capitano grazie a papà”, Il Messaggero, 27 giugno). Per arrivare a Valentina Mazzacurati, 29enne emiliana originaria del Ruanda, simpatizzante della Lega ed ex candidata alle comunali di Modena, che ha scritto su Instagram un post contro le fattezze estetiche di Carola (“Possiamo fare qualcosa per farla assomigliare a una donna? Se fossi conciata così, forse anche io mi dedicherei a fare la scafista”). E ai microfoni della trasmissione La Zanzara, sempre lei ribadisce: “Per me la Rackete non assomiglia a una donna. Ha i rasta (dreadlocks, ndr), non si riesce a capire se è un uomo o una donna, si veste in un certo modo, quindi non è decorosa. Non rappresenta le donne, io non mi sento rappresentata da una donna vestita da sciattona. Una si può mettere anche una maglietta bianca, così è più decorosa soprattutto se fa delle foto o se vuole attirare i media. Forse è retaggio della mia educazione, ma mi hanno insegnato che, quando una vuole dare peso alle parole e soprattutto alle sue azioni, deve essere quantomeno decorosa e presentabile”.
Ecco appunto: dare il giusto peso alle parole. Cosa che in tutta questa vicenda è davvero scappata di mano ai più.
E poi gli insulti sul molo, al momento dell’arresto, che hanno trasposto e fuso l’odio razzista nei confronti dei migranti a quello misogino. “Zingara, venduta, tossica, vattene in galera, drogata. Vai dalla Merkel, vergogna. Le manette!”. E soprattutto: “Spero che ti violentino ‘sti negri”. E poi, ai deputati Pd presenti: “Vi devono violentare le mogli, ‘sti clandestini”. Frasi urlate da un gruppo di uomini ripresi in una diretta (poi rimossa) dalla pagina Facebook di Lega Lampedusa.
Poche ore dopo, un giovane pizzaiolo si autodenuncia (con gran sollievo della Lega Nord lampedusana, ndr): sarebbe stato lui a insultare Carola, “in quanto” ubriaco e arrabbiato. Un tentativo di giustificazione quasi peggiore dell’offesa.
Un altro video, poi, mostra, l’ex vicesindaca dell’isola ed ex senatrice leghista Angela Maraventano urlare rabbiosa nel buio della notte: «Non fate scendere nessuno, qui ci scappa il morto, vergogna vergogna».
Atto secondo: il sessismo
Carola Rackete è stata insultata con epiteti che, in genere, “si riservano” a “certe” donne, come ben sanno Laura Boldrini, Samantha Cristoforetti, Michela Murgia, giusto per citarne alcune. È successo persino a Giorgia Meloni, malgrado i suoi altrettanto pesanti insulti contro la stessa Carola e la Sea Watch 3. Nel frattempo anche la cantante Emma Marrone, rea di aver solidarizzato con Carola (ed in passato anche con i porti aperti, lo ricordiamo), viene sottoposta sui social ad una analoga gogna social-mediatica di razzismo misto a sessismo, insieme a Paola Turci e a Fiorella Mannoia che hanno sostenuto la collega.
D’altro canto, la recentissima ricerca condotta da Vox-Osservatorio italiano sui diritti parla chiaro: con circa 40mila tweet negativi nel giro di tre mesi, dal marzo al maggio 2019, le donne si confermano tra le categorie maggiormente attaccate dagli hater via social, in aumento dell’1,7% rispetto allo stesso periodo del 2018.
Il fatto che Carola sia stata minacciata di “stupro” (termine orribile che pur continua ad essere utilizzato) non è un fatto accidentale né un evento eccezionale. Solo poco tempo fa, una donna rom era stata intimidita allo stesso modo da un militante di CasaPound durante gli scontri per le assegnazioni delle case popolari a Casal Bruciato, a Roma. A questo va aggiunta l’ossessione per i rapporti sessuali di una donna bianca con uno o più uomini neri, che condisce con una buona dose di razzismo gli insulti sessisti.
Quello subito da Carola è una sorta di “stupro” virtuale o forse una nuova forma di “lapidazione social”, frutto dell’inflizione di una punizione tipica dell’ideologia maschilista. Quella che persiste è una vera e propria “cultura dello stupro” (e su questo già dagli anni ’70 in poi vi è un’ampia letteratura), ed è quella che poi legittima e normalizza gli abusi nella nostra società. Lo “stupro” non va inteso solo come aggressione di un uomo nei confronti di una donna, ma è anche nelle parole, nei gesti, nelle minacce, nelle relazioni quotidiane (vedi anche, a tale proposito, il comunicato di solidarietà a Carola dell’Osservatorio interreligioso sulle violenze contro le donne).
“Gli insulti a Carola allo sbarco sul molo di Lampedusa, sono un esempio lampante di ciò che già sapevamo: sessismo e razzismo hanno la stessa matrice», dice spiega bene in un articolo la femminista, studiosa e scrittrice Lea Melandri. «Le donne sono corpo da violare, catturare, sessualità incarnata dell’uomo, lo straniero, soprattutto se di pelle nera, è istintualità animale, stupratore, predatore, una minaccia per le “nostre” donne. Uno scenario perfetto di quanto l’odio per il “diverso” – sesso, razza, – e per chi vorrebbe una comunità umana solidale e giusta, sia oggi al centro della demagogia populista, nel nostro come in altri Paesi». Lo stupro inoltre «rientra in quelle logiche di guerra dove – come in questo caso – è in atto un contrasto forte, una sfida politica importante: Carola ha sostenuto e sta sostenendo i diritti umani, difende il fatto che non si può criminalizzare la solidarietà».
Da Torino, intanto, è partito un appello al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, “Questo non è il Paese che vogliamo”, in cui le organizzazioni “Se non ora quando Torino”, guidata da Laura Onofri, e “Giuristi Democratici Torino”, presieduta dall’avvocato, Michela Quagliano, per chiedere di indagare su chi ha pronunciato minacce e insulti. L’appello ha ottenuto al momento oltre 11mila firme, tra cui Cgil Torino e Piemonte, Arci, Anpi, D.i.Re Donne in Rete contro la violenza, Famiglie Arcobaleno e altre centinaia di sigle dell’associazionismo e della politica di tutta Italia. L’ex sindaca di Lampedusa Giusi Nicolini si è unita alla loro iniziativa, annunciando un ulteriore esposto.
Atto terzo: le fake news
La vita pubblica e privata di Carola è stata scandagliata fino al minimo dettaglio al fine di avviare la fabbrica del fango attraverso notizie false, ma che tanto valgono a influenzare ed alimentare l’opinione pubblica e il relativo dibattito. E insieme a lei è stato infangato chiunque abbia provato a sostenerla. Si è partiti con dei post (fino a veri e propri meme divenuti virali) che mostrano, immortalando il momento dell’arresto, “un’ascella non depilata” della capitana della Sea Watch. Questo è bastato per scatenare una vera e propria ondata di insulti contro la capitana (dalle generalizzazioni sull’igiene e la classe delle donne tedesche, fino al suggerimento di utilizzare un prodotto antipulci).
O con il post del deputato veneziano della Lega Alex Bazzaro, che ha pubblicato sul suo profilo Facebook una foto che ritrae i parlamentari del centrosinistra durante il trasferimento dal porto di Lampedusa alla Sea Watch, ma ritoccata così che al centro del gommone si veda una tavola imbandita. Il commento sotto la foto: «Guardate come stanno soffrendo i parlamentari del Pd a Lampedusa. In vacanza a spese degli italiani!». Ovviamente numerose condivisioni e altrettanti commenti “odiosi”.
Poi è toccato al padre missionario Alex Zanotelli, che ha sostenuto la candidatura di Carola per un premio Nobel, il quale avrebbe anche affermato che tutti i fatti di cronaca relativi a Lampedusa sarebbero stati alterati dalla stampa, incluso lo speronamento stesso tra la Sea Watch 3 e la motovedetta della guardia di finanza. Ovviamente, una fake news anche questa.
Mentre Carola Rackete si trova ancora agli arresti domiciliari, poi, circolano molte notizie false sulla sua vita privata, poi facilmente “debunkizzate”. Come la notizia secondo la quale il papà di Carola sarebbe un mercante di armi, e che l’intera famiglia trarrebbe vantaggio economico dalla destabilizzazione del contesto internazionale (smascherata da Giornalettismo, Bufale.net e da Bufale per tutti i gusti. Si veda anche questo articolo).
E ancora. L’altra notizia secondo cui la capitana sarebbe priva dei titoli per poter condurre una nave. Oppure la “finta” intervista del 30 giugno sul Corriere della Sera (sia su carta sia online), mentre Carola si trova ai domiciliari. La situazione viene, poi, parzialmente chiarita dal Corriere stesso, che nell’articolo specifica che “la capitana trentunenne è ai domiciliari e non può rilasciare dichiarazioni, ma attraverso i suoi avvocati chiarisce i dubbi sollevati da più parti sul suo comportamento”. Quindi la conversazione con Carola non è mai avvenuta.
Poi, la ciliegina sulla torta: la diffusione della foto segnaletica di Carola, scattata nell’hotspot di Lampedusa al momento della convalida dell’arresto.
Secondo quanto riportato da Wired, la prima persona a pubblicare la foto sul popolare social network russo VKontakte, sarebbe stata un utente dal nome italiano, già noto per essere un simpatizzante neonazista e per essere molto attivo nella diffusione di fake news di estrema destra. Al momento, i sospetti sono indirizzati su uno o più poliziotti, che avrebbero probabilmente fatto circolare illecitamente l’immagine pubblicandola su internet.
Il questore di Agrigento ha subito informato dei fatti l’autorità giudiziaria, facendo partire un’indagine interna. E, nonostante molte testate abbiano pubblicato l’immagine incriminata, la sua diffusione sarebbe illegittima in quanto violerebbe l’articolo 8 del codice deontologico dei giornalisti. Stando a quell’articolo infatti, non è possibile riprodurre immagini di individui in stato di detenzione senza il loro consenso. Inoltre, come sottolineato da autorevoli giuristi, la pubblicazione di fotografie ritraenti persone in stato detenzione è vietata in base all’articolo 25 del Codice per la protezione dei dati personali, al provvedimento 179 del 5 giugno 2012 dell’Autorità di garanzia dei dati personali, al comma 6 bis dell’articolo 114 e al comma 3 dell’articolo 329 del codice di procedura penale, al già citato articolo 8 del codice deontologico dei giornalisti e ad una sentenza Cedu 11 gennaio 2005.
Così, ieri, è stata anche presentata un’interrogazione parlamentare di Michele Anzaldi sulla vicenda, mentre dallo studio legale Wildside Human First di Bologna e rappresentato dalle avvocate Silvia Gorini e Cathy La Torre, fanno sapere di aver presentato un esposto al Garante per la protezione dei dati personali per “trattamento illecito dei dati personali”.
Le due legali lanciano anche un appello: “Affinché questa segnalazione sia efficace, ovvero porti a una efficace indagine, vi chiediamo di renderla virale”.
Ci auguriamo che questa contro-viralità positiva nell’uso dei social riesca a spazzare via tanto odio cumulato in questi giorni (così come hanno funzionato la marea di presidi e manifestazioni nella vita non virtuale).
Un grazie a Carola lo dobbiamo. Perché malgrado gli insulti e le accuse, ha affrontato il tutto con enorme dignità e ha commentato così la decisione del giudice: “Sono sollevata dalla decisione del giudice, che considero una grande vittoria della solidarietà con tutte le persone come i rifugiati, i migranti e i richiedenti asilo, e contro la criminalizzazione degli aiuti in molti paesi in Europa”. Aggiungendo: “Voglio sottolineare che tutto l’equipaggio della Sea Watch 3 ha reso questo possibile e nonostante che l’attenzione si sia concentrata su di me, è come squadra che abbiamo tratto in salvo le persone, ci siamo presi cura di loro e le abbiamo portate in salvo”.