Sedici persone, tutte di origine siriana, sono morte, a causa del naufragio di due barche nel mar Egeo. La prima imbarcazione è affondata ad Ayvalik, vicino alla costa turca: 12 le persone morte, 25 quelle tratte in salvo dalla Guardia Costiera turca. Il secondo naufragio è avvenuto al largo dell’isola greca di Kalymnos, e ha causato la morte di tre bambini -di due, cinque e nove anni- e di una giovane di sedici anni. Si cerca ancora il corpo di un quarto bambino. Tredici i sopravvissuti. Giovedì scorso hanno perso la vita sette persone, tra le quali tre bambini e un neonato: l’imbarcazione su cui viaggiavano si è scontrata con un’unità della Guardia costiera greca durante un tentativo di salvataggio al largo dell’isola di Lesbo.
Questa volta non ci sono fotografie a mostrare a tutto il mondo il dramma di queste persone, nessuna immagine immortala il corpo di questi bambini che viene lambito, inerme, dalle onde. Mancano anche i titoli ad effetto dei quotidiani. Ma l’assenza di attenzione mediatica non deve far pensare che la strage quotidiana a cui da anni assistiamo si sia interrotta. Al contrario: sembra che, di fronte a un’opinione pubblica ormai assuefatta a notizie terribili come queste, debba esserci un elemento di dramma in più, un’immagine particolarmente forte, per ricordare che le acque che lambiscono l’Europa sono ormai un cimitero. Sono 2.987 le persone che hanno perso la vita nel Mar Mediterraneo dall’inizio del 2015, secondo i dati OIM. Significa che dall’inizio dell’anno sono morte in media dieci persone al giorno.
Ma questi incessanti – ed evitabili – decessi non vengono presi in considerazione dall’Unione europea e dai suoi leader. Venerdì scorso si è concluso l’ennesimo vertice a Bruxelles, in cui è stata confermata la linea “difensiva” dell’Europa, sempre più blindata e chiusa su se stessa: frontiere sempre più controllate, esternalizzazione dei confini, aumento dei rimpatri. Tutto per allontanare persone che, loro sì, andrebbero difese.
L’attitudine europea alla totale chiusura si riflette, inevitabilmente, all’interno dei singoli stati membri: l’Ungheria, dopo aver innalzato un muro al confine con la Serbia – misura che ha fatto scuola in altri paesi europei, come la Bulgaria– ieri ha sigillato il valico di Kazany, per impedire il passaggio dei migranti dalla Croazia. La frontiera rimarrà chiusa ai “clandestini”, ha specificato il portavoce del governo Zoltan Kovacs, che intendeva indicare in realtà i cosiddetti ‘migranti economici’, ma potrà “essere attraversata legalmente dai richiedenti asilo”. Chissà a chi toccherà l’onere di distinguere tra queste tipologie di persone, create ad arte dall’Europa: sarà un compito arduo, visto che una delle caratteristiche dei richiedenti asilo è quella di viaggiare senza alcun documento, proprio perché in fuga da situazioni di profonda crisi (basta dare uno sguardo alle immagini dei paesi bombardati in Siria, in Afghanistan, in Palestina, per capire l’impossibilità di procurarsi i generi di prima necessità, figurarsi i documenti utili per viaggiare).
L’Unione europea insiste sul concetto di “paese sicuro”, su cui dovrebbe basarsi questa distinzione: se una persona proviene dai “paesi sicuri” – tra cui ad esempio sembra verranno annoverati la Nigeria, il Kosovo, la Turchia – allora è un migrante economico, e come tale può essere rimandato indietro. Una disamina più che discutibile, che comunque al momento sembra essere accantonata per più generali operazioni di respingimento, caldeggiate dal Consiglio europeo. Proprio durante queste operazioni, in Bulgaria un poliziotto ha ucciso a colpi di pistola un giovane cittadino afghano, mentre altre 50 persone, tutte provenienti dall’Afghanistan, sono state tratte in arresto.
E se l’Ungheria chiude le frontiere, gli altri paesi non sono da meno. Le autorità slovene hanno inviato l’esercito al confine, dove era già presente la polizia, ed è stato sospeso il traffico ferroviario con la Croazia, per impedire ai migranti di spostarsi in treno. Dal canto suo la Croazia fa sapere che non chiuderà le frontiere solo se anche Austria e Germania faranno lo stesso. “Se così non dovesse essere – ha specificato il ministro degli Interni croato Ranko Ostojic – assisteremo a un effetto domino”. “La chiamano Schengen ma somiglia sempre di più ad Auschwitz”: questo il commento dello scrittore sloveno Ervin Hladnik Milharcic alle ultime misure intraprese dal suo paese e dall’Unione.
Intanto, ieri la cancelliera tedesca Angela Merkel ha incontrato a Ankara il presidente turco Recep Tayyp Erdogan, per discutere dell’avvio del piano di azione di cui già venerdì aveva dato comunicazione il Consiglio europeo (qui il documento). Un piano che, secondo le ultime indiscrezioni, prevede un finanziamento ad Ankara di tre miliardi di euro da parte della Commissione europea, l’avvio di un percorso per la liberalizzazione dei visti, sollecitato dal governo turco, e un’accelerazione sull’ingresso della Turchia nella Ue. Il tutto legato alle misure avviate dal governo di Erdogan “per tenere i migranti nei suoi confini ed evitare che si mettano in viaggio verso la Ue”, come specificato senza giri di parole dal presidente lussemburghese della Commissione Ue Jean Claude Juncker.
La Turchia “è un paese importante”, ha sottolineato il ministro degli esteri Paolo Gentiloni, e “collaborerà per gestire al meglio i flussi migratori nella misura in cui la Ue intavolerà un dialogo sui punti che interessano il governo turco: dal problema dei visti a quello dell’antico negoziato di avvicinamento alle Ue”. Un percorso, quest’ultimo, fermo dal 1987, quando la Turchia presentò ufficialmente la candidatura all’ingresso nell’ Unione europea. Il dossier è bloccato da decenni per le preoccupazioni sul rispetto dei diritti umani. Ad oggi la situazione ad Ankara non è cambiata: la minoranza curda è ancora discriminata e subisce una forte e violenta repressione. Le bombe che hanno dilaniato la manifestazione per la pace sabato 10 ottobre scorso, costando la vita a più di cento persone, lo dimostrano in modo lampante (per info qui e qui, tra gli altri). Ma ora queste preoccupazioni sembrano spazzate via dalla volontà della fortezza Europa di allontanare i profughi dal proprio territorio. Per i migranti, per le loro sofferenze e i loro diritti negati, non ci sono più nemmeno le lacrime di facciata o i discorsi di circostanza. Non vengono nemmeno più nominati.
L’Unione europea potrebbe agire diversamente, prendere misure urgenti per avviare una giusta accoglienza, per garantire alle persone un accesso legale e sicuro, senza morire nel tentativo di raggiungere l’Europa. Ma sceglie consapevolmente di non farlo: opta invece per la chiusura, all’interno di uno scacchiere internazionale in cui i migranti sono ormai diventati una palese merce di scambio.