Riportiamo qui di seguito una lettera inviata da Alberto Burgio al Corriere della Sera a seguito della pubblicazione di un articolo di Pietro Grossi, apparso sul Corriere della Sera del 14 dicembre 2011. Secondo Grossi la strage del 13 dicembre a Firenze non ha nulla a che vedere con il razzismo. E con che cosa allora?
L’intervento di Pietro Grossi sui tragici fatti di Firenze (Corriere della sera, 14 dicembre) muove da una premessa condivisibile: le parole sono importanti e bisogna impiegarle con precisione e senso di responsabilità. Ma questo significa che occorre evitare non soltanto eccessi e confusione, ma anche silenzi, rimozioni e tabù. Cos’è accaduto martedì scorso a Firenze? Grossi non ha dubbi: la strage è stata il gesto di un folle, non un episodio di razzismo. Ne siamo sicuri? E siamo sicuri che le due cose (la follia di un uomo e il connotato razzista delle sue idee e delle sue azioni) si escludano a vicenda? Forse sta proprio qui l’equivoco.
Per stabilire se Gianluca Casseri fosse o meno pazzo bisognerebbe averlo conosciuto. La questione attiene alla sua condizione personale e francamente non è granché interessante. Ma anche ammettendo che ad armare la sua mano sia stata la follia, forse ciò cancellerebbe il contesto nel quale sono maturate le sue convinzioni di stampo neonazista e negazionista? O renderebbe ininfluenti gli ambienti della destra radicale da lui frequentati? Noi tutti agiamo sullo sfondo di situazioni concrete, di cui le nostre scelte, più o meno consapevoli, risentono.
Grossi avrebbe probabilmente ragione se la strage di Firenze non avesse precedenti. Ma la cronaca italiana di questi anni è purtroppo ricca di episodi più o meno tragici che recano un inequivocabile marchio razzista. L’ultimo è di questi giorni: il pogrom di Torino contro un campo rom scatenato da una bugia rivelatrice (o pensiamo sia casuale che, volendo evocare lo spettro di uno stupratore, una ragazzina lo individui in uno «zingaro»?). Questo quadro va preso sul serio, soprattutto in un momento così complicato per la società, investita da una crisi che alimenta rancori e paure. Va indagato a fondo nella sua complessità, altrimenti non si fa un uso cauto delle parole, si opta per una strategia minimizzatrice.
Nel sostenere la propria tesi Grossi impiega un argomento alquanto grave: sostiene che parlare di razzismo in merito alla strage di Firenze significa suscitare il razzismo stesso, contribuire a farlo esistere. L’accusa potrebbe essere facilmente ribaltata affermando che rifiutarsi di parlare di razzismo nonostante questa escalation di violenza contro rom e migranti ostacola la presa di coscienza e configura una sorta di complicità. Forse sarebbe consigliabile astenersi da argomentazioni contundenti e sforzarsi di comprendere una realtà meno semplice di quanto non sembri.
Ma di una cosa Grossi può stare tranquillo: negare che l’Italia sia un Paese razzista non rende affatto impopolari, al contrario. Il mito degli «italiani brava gente» gode di ottima salute, nonostante secoli di antigiudaismo e antisemitismo cattolico, nonostante le leggi razziste del fascismo e l’attiva collaborazione alla deportazione degli ebrei, nonostante la ferocia del nostro colonialismo e nonostante le leggi e le circolari violentemente discriminatorie nei confronti degli immigrati promulgate negli ultimi vent’anni. Popolare è l’idea di una nostra naturale refrattarietà al razzismo, non certo la posizione di chi cerca di fare seriamente i conti con la normalità della nostra storia nazionale e con le sue pagine più oscure.
Alberto Burgio
«Corriere della sera», 16 dicembre 2011
(Riportiamo l’articolo di P. Grossi “L’orrore di Firenze ricorda Columbine non il Ku Klux Klan“, apparso sul Corriere della Sera del 14 dicembre 2011 al quale si riferisce la risposta di Alberto Burgio
Occorre fare una premessa fondamentale; una premessa di cui, purtroppo, questo Paese troppo spesso si scorda: le cose vanno chiamate con il loro nome, e il momento in cui si nominano è spesso anche il momento in cui prendono a esistere. Ero da me in campagna, in mezzo ai boschi, mentre Gianluca Casseri imboccava il mercatino di piazza Dalmazia, a Firenze, e dava inizio alla sua assurda e scellerata strage (era molto tempo che non facevo tanta fatica a trovare degli aggettivi: sembrano tutti riduttivi e ridicoli). Ne sono stato informato nel tardo pomeriggio, per domandarmi se, da fiorentino, avevo qualche commento da fare. Ho quindi detto che non ne sapevo niente e sono corso davanti al computer a cercare di capire cosa fosse accaduto.
In Rete ho trovato riportato il fatto come l’esecuzione razzista di un militante di estrema destra. Ecco dove nasce la mia esigenza di sottolineare che le cose vanno chiamate con il loro nome. In questo caso il nome non è razzismo, è pazzia. Lo voglio dire, e a rischio di essere impopolare lo voglio dire chiaro: l’Italia non è un Paese razzista. E tantomeno Firenze. L’Italia è diventata un Paese fin troppo intollerante, e sfoga troppo spesso in maniera riprovevole la sua esasperazione.
Ma il razzismo, il razzismo vero, è un’altra cosa, e la mia metà americana lo conosce bene. È, va detto, comprensibile incasellare questa vicenda sotto il buio ombrello del razzismo, ne ha apparentemente tutte le caratteristiche. Vi sono però due qualità fondamentali del razzismo che mi permettono ancora di dire che in Italia non esiste: l’essere sempre gratuito e mai episodico. Per questo è giusto fare molta attenzione e tenere presente che molte realtà iniziano a esistere nel momento in cui le nominiamo. Ed è per questo che il gesto di Casseri è ancora da ritenersi il gesto di un pazzo, non di un invasato razzista.
Dopo essermi fatto un’idea di cosa era accaduto, ho alzato il telefono e ho chiamato un paio di persone a Firenze. Una mi ha detto che per un attimo gli è sembrato di sentirsi in America, in un luogo tipo Columbine. Non nell’America del Ku Klux Klan, a Columbine. Ecco: se l’Italia è il Paese che conosco, se Firenze è la città che conosco, il gesto di Casseri va preso come quello di quei ragazzini nel liceo del Colorado. Appiccicare alla strage di Firenze il cartellino di razzismo, significa contribuire all’esistenza del razzismo stesso.
Pietro Grossi – (Corriere della Sera – 14 dicembre 2011)