Tutti a scuola, al più presto, con gli stessi diritti e doveri degli italiani. Questi, in sintesi, i principi del nostro ordinamento sull’inclusione scolastica dei figli dell’immigrazione. Ma qualche volta non è così. A Roma, per esempio, un ragazzino cinese arrivato lo scorso marzo per “ricongiungimento” sta incappando da settembre in una sfilza di no. Nessuna delle scuole medie cui i genitori si sono rivolti, nel suo quartiere come in altri, gli ha aperto le porte . Solo due hanno risposto alla richiesta in modo formale, nessuna si è occupata di indirizzarlo altrove, tutte si sono trincerate dietro classi già piene. Un rifiuto illegittimo. Il fatto che Liang – chiamiamolo così – non sia stato iscritto nei tempi regolamentari (entro febbraio 2016, quando non era ancora in Italia) non ha rilevanza, visto che per norma “l’iscrizione a una scuola può essere richiesta in qualunque periodo dell’anno scolastico”. Come quasi tutti i “ricongiunti” che arrivano da adolescenti, anche Liang di italiano non ne sa quasi niente, ma l’obbligo per la scuola di accettarne comunque l’iscrizione (consentendo solo, e con apposita motivazione, l’inserimento in classi inferiori all’età anagrafica) non è affatto insensata, si sa che non c’è via migliore, per lo studente straniero che debba familiarizzarsi al più presto con la lingua del paese ospite, che impararla dai compagni di scuola. Negli scambi comunicativi che si sviluppano da subito, in palestra, nei laboratori di tecnologia, nelle ore di musica, espressione artistica, geografia, e poi via via in tutto il resto. Venticinque anni di scuole sempre più multilingue hanno spiegato come si fa. E però questa volta niente da fare. Non solo. Un rifiuto è arrivato anche da un Centro per l’istruzione degli adulti, una scuola pubblica specializzata in percorsi formativi per gli stranieri, perché per iscriversi occorre avere 16 anni, e il ragazzino cinese, alla soglia ormai dei 15, non può essere ammesso. Di qui l’extrema ratio di un corso di italiano per 14-15enni in una delle tante scuole romane del volontariato, in attesa di soluzioni più appropriate. Che però, a diverse settimane dall’inizio della vicenda, ancora non si materializzano, sebbene l’amministrazione scolastica sia al corrente di tutto. Bisogna, ancora una volta, ricorrere agli avvocati?
Di casi così non ce ne sono tanti ma neppure pochi, e sono probabilmente destinati a moltiplicarsi: sia per le caratteristiche dei nuovi flussi migratori che per le crescenti contrarietà dei genitori italiani a classi “troppo” piene di stranieri. Ma il peggio si può evitare. In Emilia Romagna, per esempio, le Questure, che sanno dei “ricongiunti” prima che arrivino, ne informano per tempo l’amministrazione scolastica in modo da facilitare una corretta programmazione dell’offerta. Mentre in Lombardia e Friuli si sono fatti accordi per abbassare a 15 anni l’età di accesso alle scuole per adulti. E’ un’età difficile, quella dei 14-15enni, per i ricongiunti come per i minori non accompagnati (più di 23mila da gennaio 2016). Troppo grandi di età o troppo segnati dall’esperienza per accedere, quando le medie o le superiori li rifiutino, alle classi della primaria. E spesso troppo giovani, invece, per poter cogliere l’unica e preziosa opportunità offerta dai Centri dove si può imparare la lingua, conseguire la licenza media, accedere a diplomi o qualificazioni professionali. Ma a Roma e nel Lazio si stenta, finora, a imparare da chi fa meglio, fino al punto da non turbarsi più che tanto se un ragazzino come Liang, pur tutelato dalla legge, resta fuori della porta. Una cosa tanto più assurda considerando che, con l’”accordo di integrazione” (2012) del ministro Maroni, l’evasione dall’obbligo di istruzione dei figli porta di filato alla perdita del permesso di soggiorno dei genitori.
Si può obiettare che si tratta di casi estremi, gli studenti stranieri sono ormai più di 800mila (più del 55% nati qui), e sono numerose le scuole che si misurano con impegno con plurilinguismo e multiculturalità. E’ anche nelle microcriticità però che si rivela un sistema connotato da processi di integrazione ancora troppo problematici. Qualche studioso la nostra integrazione scolastica l’ha definita non a caso “basata sul ritardo”[1]. Sono i ritardi causati da inserimenti in classi inferiori all’età anagrafica – la scappatoia delle scuole incapaci di attivare laboratori linguistici – e sono quelli che poi si accumulano per bocciature e ripetenze. A 10 anni (scuola primaria, dove i nati in Italia sono oltre il 70% ) sono quasi 1 su 5 gli stranieri in ritardo di un anno, e un altro 3% di due anni o più. A 14 anni, in ritardo di un anno sono il 44%, di due anni il 13,5% di tre il 2,5%. A 18 anni, il ritardo schizza al 60%. Una patologia mortificante, che scoraggia dal proseguimento degli studi e che è dovuta principalmente a inerzie e deficit professionali della scuola: perché anche quando l’italiano della comunicazione quotidiana c’è, a mancare sono spesso gli strumenti linguistici per lo studio. E a cadere – ad abbandonare prima del tempo finendo magari nel buco nero dei Neet , i giovani senza scuola e senza lavoro – sono davvero tanti. Non è sensato questo spreco umano ed economico, non è per niente lungimirante. Tanto più che gli studenti stranieri hanno di solito una marcia in più in termini di motivazione allo studio dato che attribuiscono alla scuola un ruolo decisivo di riscatto sociale, personale e familiare.
Gli studi che ogni anno si fanno sull’integrazione dei figli degli immigrati, pur rilevando progressi e miglioramenti, continuano a mettere a fuoco criticità tanto consistenti quanto resistenti. Gli svantaggi in termini di partecipazione alle scuole per l’infanzia, l’emorragia di iscritti dopo la scuola media, l’addensarsi negli indirizzi della scuola superiore considerati di minor pregio e nei percorsi brevi di formazione professionale, i numeri bassissimi degli accessi all’università. E poi anche i guasti dovuti alla non attivazione di solidi e limpidi dispositivi di riconoscimento delle competenze o dei diplomi conseguiti nei paesi di provenienza. Mentre restano alti i rischi di estraneità culturale indotti da curricoli formativi ostinatamente italocentrici, pur nel profluvio delle indicazioni ministeriali sull’educazione all’intercultura. Lo specchio, insomma, di un paese che anche quando accoglie non è capace di integrare. Forse perché non vuole arrendersi all’evidenza del milione e mezzo di minori stranieri ad oggi residenti in Italia, e al loro essere parte ormai strutturale dei “nostri” giovani (tanto più con l’andamento demografico che ci ritroviamo).
Ritardi, miopie, contrarietà che si riscontrano anche altrove, a partire dall’iter disperatamente lungo del provvedimento legislativo che dovrebbe accelerare e agevolare l’accesso alla cittadinanza dei ragazzi che nati o arrivati qui da bambini. Purché vadano a scuola regolarmente e purché concludano un ciclo di istruzione, dice il provvedimento approvato da un ramo del parlamento e fermo lì da mesi.
“Ius culturae”, appunto.
[1] Stefano Molina. Seconde generazioni e scuola italiana, in People First, Il capitale sociale e umano, S.I.P.I 2014