L’attesa a bordo della Open arms, la quarantena sulla nave Allegra, il ricovero in ospedale. E’ durato quasi un mese il calvario di Abou, quindicenne ivoriano, morto il 5 ottobre all’Ingrassia di Palermo. Più di venti giorni in mare prima del lasciapassare per la terraferma. E per l’ospedale. Il 10 settembre l’imbarcazione su cui viaggiava viene soccorsa dalla Open arms. In un primo momento, come riporta il comunicato di Emergency. “Abou non riportava sintomi particolari, se non una forte denutrizione, comune alla maggior parte delle persone che erano sulla sua barca.” La situazione peggiora il 17 settembre, Abou inizia ad accusare febbre e dolori lombari. Si ipotizza un’infezione alle vie urinarie; viene curato dallo staff medico di Emergency con paracetamolo e terapia antibiotica. Il giorno seguente, nonostante un po’ di febbre, il ragazzo sembra in condizioni migliori e alle 14 viene trasferito sulla nave quarantena Allegra. Qui le sue condizioni di salute precipitano e i contorni della vicenda diventano meno nitidi “Stiamo cercando di ricostruire quanto successo al ragazzo – dice Fulvio Vassallo, esponente della Clinica legale per i diritti umani – Negli ultimi giorni c’è qualche buco. Le sue condizioni, come mi ha raccontato la tutrice erano già serie”. Ciò che sembra emergere è il colpevole ritardo con cui viene deciso il ricovero. Il 28 settembre il medico di bordo parla di “condizioni allarmanti”. Il 29, come si legge nel referto, ne richiede lo sbarco e il ricovero urgente in strutture adeguate: “Le condizioni generali del paziente appaiono peggiorate. I compagni riferiscono che si rifiuta di bere arrivando a sputare l’acqua che gli viene offerta. Rifiuta terapia di qualsiasi tipo…il paziente necessita urgentemente di ricovero in struttura adeguata per studio approfondito di apparato urinario e reintegro alimentare per stato di grave malnutrizione e denutrizione volontaria“. Tra l’1 e il 2 ottobre, dopo aver effettuato due tamponi con esito negativo, Abou lascia finalmente la nave quarantena e viene ricoverato prima al Cervelli e poi, una volta entrato in coma, in assenza di posti in rianimazione, all’Ingrassia. Morirà 3 giorni dopo.
“Non posso non pensare a quei 15 giorni in cui in quarantena non ha ricevuto cure…Mi hanno detto che per giorni c’è stato solo un medico per i 600 migranti della nave quarantena “, commenta Alessandra Puccio, tutrice del ragazzo, che in seguito a quanto accaduto ha presentato una denuncia al commissariato Porta Nuova di Palermo.
Assistenza sanitaria inadeguata e ritardo nel trasferimento e nel ricovero in una struttura idonea. Accuse che, se confermate, oltre a far pensare a una possibile omissione di soccorso, getterebbero ulteriori ombre sull’intero sistema delle navi quarantena. Le linee guida dell’Organizzazione Internazionale del mare (Imo) del 2004, definiscono posto sicuro (safety place) un luogo in cui la sicurezza e la vita dei sopravvissuti non sia più minacciata e in cui le necessità umane primarie, tra cui le cure mediche, possano essere soddisfatte. Alla luce di quanto accaduto le navi quarantena non sembrano rispettare tali requisiti. E non solo per il diritto alle cure mediche negato. E’ il concetto di sicurezza a tutto tondo a essere in discussione. Fisico ma anche psicologico. Se le cause della morte di Abdou sono da ricercare probabilmente nella fallimentare assistenza sanitaria (non) ricevuta, è possibile ipotizzare che vi siano state anche cause di natura psicologica. Abou, come tanti altri migranti, fuggiva da situazioni di guerre, di violenze e di abusi, aveva vissuto la detenzione e le torture nelle carceri libiche, aveva rischiato la vita su un’imbarcazione di fortuna per attraversare il Mediterraneo. Per scoprire poi che la sua odissea non prevedeva un arrivo sulla terra ferma, ma ancora la permanenza in mare. Nessun porto ma un nuovo limbo e una nave quarantena come approdo. Abou, raccontano i testimoni, si rifiutava di bere e sputava l’acqua che gli veniva offerta. Aveva smesso di collaborare. A 15 anni e con troppe memorie negative, di fronte all’ennesimo ostacolo tra sé e la fine del calvario, probabilmente aveva smesso di immaginare una via d’uscita. La nave quarantena lo ha salvato dalle onde ma non è stata in grado di garantirgli la sicurezza e il supporto psicologico di cui aveva bisogno.
E non poteva essere diversamente. Lasciare in mare chi in mare ha appena rischiato la vita e, allo stesso tempo, pretendere di offrirgli, come il diritto internazionale imporrebbe, un posto sicuro, è una contraddizione in termini. Come tante misure adottate per le politiche migratorie, italiane e non, le navi quarantena sembrano avere come unica priorità il contenimento. Sono incompatibili con il bagaglio di esperienze dei migranti, con il loro vissuto e le loro paure, e solo la condizione di anonimia in cui sono relegati, quasi fossero semplici numeri da gestire, ne rende possibile l’esistenza.
Lorenzo Lukacs