I giornali riportano una serie di considerazioni del capo della Polizia, Gabrielli, sull’immigrazione. Tra le varie cose dette, alcune di buon senso, altre discutibili, emerge un tormentone che naturalmente verrà ripreso, ripetuto, urlato nei prossimi giorni. Un dato apparentemente incontrovertibile, usato come un indicatore della necessità di “costruire percorsi di integrazione”.
La parola “integrazione” si presta a usi diversi, e la retorica che vi fa ricorso permette le più varie acrobazie. Come molti politici, improvvisati e non, anche nel linguaggio di Gabrielli i “percorsi di integrazione” si prevedono e normano dall’alto, mentre la cosiddetta integrazione riguarda il singolo individuo che, appunto, “si integra” (mostrando docilità premiale) o “viene integrato” (al passivo, perché accetta passivamente l’azione altrui). Non spunta mai una possibilità d’uso decente del termine “integrazione”, come quella praticata decenni fa, che indicava un processo di reciproco adattamento tra la società di arrivo e gli immigrati, attraverso il rispetto dei diritti degli immigrati e le politiche sociali. Di rispetto dei diritti e di politiche sociali non si parla, di reciprocità meno che mai, e allora meglio rievocare in astratto la costruzione di processi di assoggettamento e l’adattamento forzato dei soggetti (meglio, assoggettati), invitati a “integrarsi”: cioè a dimostrare, anche con esami di lingua e di passiva assuefazione, di meritarsi diritti al ribasso.
Dice Gabrielli (si veda Il Fatto quotidiano) : “Da 10 anni c’è un trend in calo complessivo dei reati. Ma c’è anche, negli ultimi anni, un aumento degli stranieri coinvolti tra arrestati e denunciati, questo è inequivoco”. E sottolinea che “nel 2016, su 893mila persone denunciate e arrestate, avevamo il 29,2% degli stranieri coinvolti; nel 2017 la percentuale è salita al 29,8%, nel 2018 al 32% e in questo 2019 che sta quasi finendo il trend è lo stesso, siamo quasi al 32%”. La conclusione viene presentata come ovvia: “Tenendo conto che gli stranieri nel nostro Paese, sono il 12%, tra legale e non, questo dà la misura del problema”.
L’ovvio va interrogato e messo in questione il più possibile: nel caso del tema immigrazione, dati i presupposti fallaci di senso comune, tale esercizio del sospetto va praticato sempre. Proviamo a riguardare con attenzione quanto dice Gabrielli: gli “stranieri”, tra le persone denunciate e arrestate, sono il 32%; rispetto alla popolazione italiana, il 12% (una stima un po’ larga, ma non è il caso di sottilizzare): questo divario “dà la misura del problema”.
Che quel divario misuri qualcosa, è sicuro, sono due numeri messi in rapporto tra loro, e qualcosa, anche secondo noi, significa. C’è però da stabilire un punto: di quale problema si tratta? Dicendo “il” problema, Gabrielli dà per scontato che quanto ha detto indichi con evidenza un problema preciso, che è nella sua testa e perciò viene imposto come una presupposizione a chi legge o ascolta. Ma la cosa data per ovvia non lo è: si tratta di un dispositivo discorsivo che lavora “in maniera dolce, subdola…e può essere un potente mezzo di manipolazione del lettore”, come scriveva chi l’ha messo a fuoco dal punto di vista linguistico, Maria-Elisabeth Conte; tanto che viene indicato come chiave di molti giudizi che fingono di non essere tali da Federico Faloppa, “Razzisti a parole (per non parlar dei fatti)”, Laterza 2011, pag.106/107.
Basta fare un esempio: supponiamo di leggere i giornali americani successivi a un attentato, negli anni venti (il periodo in cui vennero condannati a morte gli innocenti Sacco e Vanzetti); poniamo che dai giornali si venga a sapere che in città sono stati fermati alcune centinaia di sospetti, e che fra questi gli italiani siano il 32%; e che la popolazione italiana rappresenta il 12% di chi abita in città. Potremmo presentare il fatto dicendo: “questo dà la misura del problema”; o anche “questo dà la misura dei pregiudizi della polizia (di allora)”. In ciascuno dei due casi, noi avremo dato un giudizio, ma senza presentarlo come tale, bensì invitando l’ascoltatore o il lettore a pensare che quanto detto sia “inequivocabilmente” un problema, o un’ingiustizia: due giudizi antitetici, entrambi soggettivi, che possono essere presentati come “la cosa di cui si stava parlando”. Come dice Faloppa: fingendo di ricapitolare quanto detto (qui “il problema” o “i pregiudizi”) si introduce un giudizio presentandolo come una informazione evidente. O inequivoca, come dice Gabrielli.
In quale cornice acquista senso il dato indicato dal capo della polizia? Sulla cornice, o frame, delle affermazioni in campo politico si discusse una dozzina di anni fa grazie al libro “Non pensare all’elefante!” di Lakoff, che a detta dell’autore era un invito ai democratici per mettere in questione l’egemonia della destra nel proporre le cornici che danno senso a qualsiasi cosa venga detta: ma è sempre e ancora il discorso di destra a dettare frames che mettono in difficoltà l’argomentazione della sinistra; quest’ultima così parte svantaggiata, e, accomodante com’è e incapace di reframing, sconfitta in partenza. Si veda il reframing operato da parte della destra sul diritto alla cittadinanza dei figli di immigrati nati qui: si è passati da tale rivendicazione alla latinizzazione (degna del latinorum di Don Abbondio in difficoltà con Renzo) e così i politici (ma non molti attivisti antirazzisti) hanno parlato di “ius soli”; poi è stata inventata la cornice dello “ius culturae”, ed è in tale quadro, che ribadisce la necessità per loro di meritarsi ciò che per noi è un diritto, che si cerca di giungere a un accomodamento con una parte assai minoritaria della destra (Renata Polverini e forse qualche altro). Ciò rafforzerà il predominio culturale della destra nell’opporre loro a noi, e non basterà per ottenere qualcosa.
Possiamo cercare di capire qualcosa dalle cifre esibite da Gabrielli. Il numero di denunciati non è un dato che si produce in natura, ma è sempre il segno di un’attività di diverse agenzie, tra cui, centrali, quelle di polizia. Come ha mostrato negli anni ’30 del secolo scorso Johan Thorsten Sellin, e come con scarso ascolto da parte di chi ne chiacchiera insistono a ricordarci manuali autorevoli di criminologia, man mano che ci si allontana dalla scena del crimine le statistiche criminologiche ci parlano di altro: se si parla di condannati, ci dicono molto anche su come funzionano leggi e magistratura, se si parla di arrestati ci dicono molto sulle attività delle forze dell’ordine, etc.
Tanto per capirci con esempi concreti: per un italiano non è un reato non esibire i documenti, per uno straniero sì. Pensiamo a controlli sugli autobus o sui treni, sempre più di frequente mirati (si veda qui): lo straniero può essere denunciato per non avere esibito un documento, e se privo del permesso di soggiorno può essere denunciato per il reato di “clandestinità”, che prima non esisteva (si trattava di una infrazione amministrativa), ma è tale grazie alla legge 94 del 2 luglio 2009 (ministro degli interni, Maroni); da allora si sono succeduti governi “di centrosinistra” che non hanno mai trovato il tempo di cancellare il “reato di clandestinità”.
Chi ci legge ha sicuramente incontrato più volte sui giornali la formula “sono stati ritrovati n soggetti extracomunitari non in regola con le norme sul permesso di soggiorno. Gli stessi, pertanto, venivano accompagnati presso la locale Questura, e dopo essere stati compiutamente fotosegnalati, venivano deferiti all’autorità giudiziaria per inosservanza della normativa stranieri.” Fermati, fotosegnalati, deferiti: cioè denunciati, a gonfiare i numeri che poi un capo della polizia può esibire senza stare tanto a ricordare come sono stati prodotti. “Prodotti” è il termine più appropriato per indicare quelli che di solito vengono detti “dati” statistici: che non sono dati, ma prodotti secondo i parametri, le categorie, i criteri con cui vengono svolte le statistiche. Le quali a loro volta parlano di fenomeni non “dati”, ma prodotti.
Si producono più denunciati tra le persone che vengono fermate di più, a piedi o in auto, come avviene ed è stato dimostrato, anche se c’è stato qualche bello spirito “democratico” che ha piegato dati evidenti per cercare di sostenere il contrario (sul tristo episodio si veda Melossi, in “Etnografia e ricerca qualitativa”, 2010). Quando un Cucchi viene ucciso in carcere ci vogliono molti anni a denunciare e condannare i sicuri colpevoli, e non sempre ci si riesce; invece gli immigrati sono di frequente fermati, e facilmente denunciabili per un mucchio di (presunti) reati minori o discutibili.
La sproporzione tra immigrati presenti e immigrati denunciati ci parla, certo, anche di marginalità e vulnerabilità di una parte della popolazione straniera presente, in un quadro in cui ci si preoccupa poco di tale vulnerabilità, e anzi la si produce; ma ci dice moltissimo delle attività di polizia, delle norme di legge, delle direttive e delle abitudini non scritte ma tenaci e rilevabili da un’indagine etnografica. Come quella che ci ha permesso di sapere, a suo tempo, che, anche se non è un delitto essere scuri di pelle o avere i capelli ricci o non radersi ogni giorno, è statisticamente più facile essere fermati (e perciò anche, se è il caso, denunciati) per avere i capelli ricci, la barba incolta o la pelle scura. Si pensi a come sarebbe istruttivo leggere le statistiche sui fermati: “ieri in tutta Italia sono state fermate 1972 persone; tra esse, il 30% di persone con la pelle scura, il 35% con la barba di due giorni e il 34% con i capelli ricci (in alcuni casi il dato è cumulabile: c’è chi ha i capelli ricci ed è nero di pelle, etc.). Dato che le persone di pelle scura sono solo il 5% della popolazione, quelle che non si radono ogni giorno sono il 18% e quelle con i capelli ricci sono il 12%, questo dà la misura del problema”. In questo caso, sarebbe evidente che il problema è tutto delle forze di polizia, che dovrebbero adoperare criteri diversi, e magari più efficaci, per fermare le persone. Altrimenti ogni conclusione fondata su tali dati prodotti sarebbe – come diceva sarcasticamente Oscar Wilde – sbadata.
Simili sbadataggini segnano l’interpretazione dei numeri che dà il capo della Polizia, e dispiace che invece di cercare di capire i dati statistici si proclami un “problema” autoevidente e corrispondente a quello immaginato dal senso comune, allarmato da decenni di discorsi xenofobi e di dispositivi discorsivi, di legge, deumanizzanti.
Diceva un grande studioso che non avrebbe accettato di leggere statistiche sull’intelligenza dei neri e dei bianchi fin quando non si sarebbero prodotte statistiche sul quoziente di intelligenza di idraulici e pellettieri. Ecco cosa manca, nei numeri del capo della polizia: la giustificazione del perché si producono numeri sulle denunce che riguardano gli stranieri e non quelle riguardanti gli imbianchini, poniamo, o i dirigenti di grandi imprese.
Giuseppe Faso