Petty ha 38 anni, una figlia di dieci anni, un marito e un lavoro come collaboratrice domestica a Roma. Lavora “fissa” come si dice da una famiglia benestante che abita sulla Nomentana: significa che vive lì, anche se ha un giorno libero a settimana da passare con la sua famiglia, che invece ha affittato un piccolo appartamento nella zona di Rebibbia. Un menage non semplice, ma che Petty ha affrontato a cuor leggero: sempre meglio avere figlia e marito vicini piuttosto che dall’altra parte del mondo, in Perù.
Ma la crisi economica ha sparigliato le carte, e rimesso tutto in gioco: suo marito, operaio edile, non lavorava ormai da più di un anno. La bambina, arrivata in Italia quando era già grandicella, cinque anni, non si era mai adattata completamente alla vita in Italia, almeno secondo la madre. Alla fine, la decisione: “non potevo continuare a lavorare per pagare l’affitto della casa di Rebibbia”, dice Petty. Padre e figlia tornano in Perù. La madre resta in Italia a lavorare.
E’ una delle conseguenze della crisi economica che attanaglia tutti i lavoratori, compresi, ovviamente, anche quelli immigrati. Che però nel “tagliare” e nello “stringere la cinghia” hanno – forse – un’opportunità in più. Anche se è un po’ difficile considerare una “opportunità” il fatto di dover fare a meno dei propri affetti, di “tornare indietro” in una situazione di “prima migrazione”, anche quando si era riusciti a creare una situazione di stabilità affettiva e familiare. Ma secondo Petty “meglio così” perché, spiega, i problemi economici inevitabilmente creano anche tensioni familiari, e non c’è dubbio che per un uomo essere mantenuto dalla moglie crea ancora problemi psicologici, a tutte le latitudini.
Anche se la crisi economica ha comportato proprio questo, e di nuovo tornano a crearsi delle differenze molto nette tra il mondo al femminile “autoctono” e quello delle donne migranti. Perché la mancanza di lavoro, il mercato fermo, l’assenza di investimenti per le italiane comporta come immediata conseguenza la diminuzione delle opportunità lavorative. Lo dicono i primi studi su questo tema, che sono stati resi noti in occasione degli Stati generali del lavoro delle donne organizzati dal Cnel (http://www.cnel.it/29?shadow_ultimi_aggiornamenti=3381). Qui si può trovare un utile riassunto. Comunque basti dire che, dopo anni di aumento dell’occupazione femminile in Italia, è arrivato lo stop: dal 2008 al 2010 l’occupazione femminile è diminuita di 103mila unità (-1,1%), mentre il 2011 segna un ulteriore peggioramento della situazione delle giovani, con 45mila occupate in meno nei primi tre trimestri dell’anno. Il tasso di occupazione femminile resta al penultimo posto in Europa: al 46,1% nel 2010, appena sopra Malta.
Ma per i migranti, e soprattutto per le migranti, il discorso cambia completamente: sono loro che, in un periodo di crisi come quello attuale, diventano i “capisaldi” della famiglia.