Quando dieci anni fa si parlava di “ritorno volontario assistito” veniva considerato uno strumento piuttosto subdolo per spingere l’acceleratore sulle espulsioni. E sono state, nel corso degli anni, anche molte le polemiche sull’opportunità di cercare da parte degli Stati una strada per “togliersi dai piedi” soggetti giudicati scomodi, come accadde nel 2008 con i rom rumeni.
Ma ora la storia del rimpatrio volontario assistito ha cambiato di segno: prima con l’approvazione della Direttiva rimpatri da parte dell’Unione europea, e poi con la grande crisi economica che ha compito l’Europa, e che ha oggettivamente aumentato la platea dei migranti che vorrebbero sul serio avere l’opportunità di tornare nel proprio paese di origine, ma mancano di strumenti sia – a volte – persino per pagare il biglietto aereo, sia dei fondi necessari per provare a ripartire.
Oggi parte in Italia la campagna informativa sul rimpatrio volontario, dopo tre anni di sperimentazione che hanno portato a un numero crescente di persone rimpatriate volontariamente – nel 2009 erano solo 162 e sono diventate 474 nel 2012, per un totale di 1.276 persone nel triennio. Spot televisivi in Rai, richiesta ai vari siti internet di pubblicare il banner, opuscoli e volantini plurilingue. La Rete RIRVA fa appello a tutte le realtà di contatto con i migranti affinché il materiale informativo sia diffuso il più possibile.
La Direttiva Rimpatri europea approvata nel 2008 ha rappresentato un po’ uno spartiacque in Europa, a cui l’Italia si è adeguata faticosamente e non è ancora del tutto “in marcia”. Se da una parte, infatti, quella Direttiva ha aumentato il periodo massimo di trattenimento del migrante irregolare a 18 mesi nei centri di espulsione, dall’altra ha chiarito una volta per tutte che la reclusione è solo l’extrema ratio nel trattamento delle espulsioni. E che gli Stati devono impegnarsi il più possibile nel favorire un ritorno volontario, investendo anche dei fondi a questo scopo. E’ stato d’altronde dimostrato che espellere una persona in modo coatto costa quattro volte di più che inserirla in un rimpatrio volontario, e più sono le risorse – anche umane – messe a disposizione, più il progetto di reinserimento può avere successo.
Dal punto di vista legislativo l’Italia si è adeguata alla normativa europea: possibili candidati a un rimpatrio volontario, infatti, non sono più soltanto i soggetti vulnerabili – madri sole, anziani, persone con problemi di salute – o donne vittime di tratta, ma anche persone irregolari, o che stanno per diventarlo, e richiedenti asilo che – viste mutate le condizioni politiche nel proprio paese – decidono di rinunciare allo status di rifugiato o alle protezione umanitaria, e scommettono su un rientro in patria (in questo caso, però, vengono prima fatte delle analisi anche dall’Alto Commissariato per i Rifugiati).
Ma in realtà esistono ancora dei “buchi” procedurali che rendono difficile il coinvolgimento nel rimpatrio assistito delle persone che hanno subito una espulsione e che – ad esempio – sono rinchiuse nei centri di detenzione. La questione è legata proprio all’espulsione, che secondo la legge Bossi-Fini impedisce il rientro in Italia per cinque anni (la legge italiana prevedeva il divieto per dieci anni, ma è stata proprio la Direttiva a riaccorciare il tempo). Chi accede al rimpatrio assistito, invece può rientrare in Italia in qualsiasi momento.
Il Dipartimento di Pubblica sicurezza ha già inviato una circolare, su sollecitazione della Questura di Milano che poneva interrogativi su questo punto, dando delle indicazioni circa il fatto che – se la persona non è stata espulsa per motivi gravi e chiede di entrare in un progetto di rimpatrio – l’espulsione va annullata, e anche le precedenti. Ma una circolare non basta: è necessario che il Dipartimento delle Libertà Civili emetta delle precise linee guida che uniformino la situazione a livello nazionale. Nonostante le sollecitazioni della Rete, però, per adesso il Dipartimento tace.
Le persone che hanno perso o stanno per perdere il permesso di soggiorno, o che addirittura sono già state espulse e sono rinchiuse in un Cie, inoltre, per ora non possono accedere al rimpatrio assistito anche per un altro motivo: non esistono progetti a loro rivolti. Per essere rimpatriati in questa modalità, infatti, bisogna entrare a far parte di uno specifico progetto, finanziato dal Fondo europeo per i rimpatri. L’ultimo bando riguarda il rimpatrio di circa 1000 persone, ed è valido fino a giugno dell’anno prossimo. All’inizio dell’estate usciranno i bandi per poter avviare rimpatri volontari da giugno 2014. Chiaro che, però, l’emergenza è adesso: nel 2014 è molto più probabile, con l’economia che – si spera – in ripresa, diminuirà la platea di chi vuole tornare nel proprio paese di origine.
Per quanto una cosa è certa: alcuni paesi non comunitari hanno, in molti casi, un tasso di crescita superiore a quelli europei. Dunque, in questi casi, il “ritorno volontario”, sempre di più, potrebbe essere una opportunità per rispondere in modo positivo a un processo migratorio fallito.
L’importante è che il programma di rimpatrio volontario non perda la sua finalità originaria e sia utilizzato per facilitare il ritorno delle persone che per diversi motivi desiderano tornare nel paese di origine. E non per incentivarlo.
Quando dieci anni fa si parlava di “ritorno volontario assistito” veniva considerato uno strumento piuttosto subdolo per spingere l’acceleratore sulle espulsioni. E sono state, nel corso degli anni, anche molte le polemiche sull’opportunità di cercare da parte degli Stati una strada per “togliersi dai piedi” soggetti giudicati scomodi, come accadde nel 2008 con i rom rumeni.
Ma ora la storia del rimpatrio volontario assistito ha cambiato di segno: prima con l’approvazione della Direttiva rimpatri da parte dell’Unione europea, e poi con la grande crisi economica che ha compito l’Europa, e che ha oggettivamente aumentato la platea dei migranti che vorrebbero sul serio avere l’opportunità di tornare nel proprio paese di origine, ma mancano di strumenti sia – a volte – persino per pagare il biglietto aereo, sia dei fondi necessari per provare a ripartire.
Oggi parte in Italia la campagna informativa sul rimpatrio volontario, dopo tre anni di sperimentazione che hanno portato a un numero crescente di persone rimpatriate volontariamente – nel 2009 erano solo 162 e sono diventate 474 nel 2012, per un totale di 1.276 persone nel triennio. Spot televisivi in Rai, richiesta ai vari siti internet di pubblicare il banner, opuscoli e volantini plurilingue. La Rete RIRVA fa appello a tutte le realtà di contatto con i migranti affinché il materiale informativo sia diffuso il più possibile.
La Direttiva Rimpatri europea approvata nel 2008 ha rappresentato un po’ uno spartiacque in Europa, a cui l’Italia si è adeguata faticosamente e non è ancora del tutto “in marcia”. Se da una parte, infatti, quella Direttiva ha aumentato il periodo massimo di trattenimento del migrante irregolare a 18 mesi nei centri di espulsione, dall’altra ha chiarito una volta per tutte che la reclusione è solo l’extrema ratio nel trattamento delle espulsioni. E che gli Stati devono impegnarsi il più possibile nel favorire un ritorno volontario, investendo anche dei fondi a questo scopo. E’ stato d’altronde dimostrato che espellere una persona in modo coatto costa quattro volte di più che inserirla in un rimpatrio volontario, e più sono le risorse – anche umane – messe a disposizione, più il progetto di reinserimento può avere successo.
Dal punto di vista legislativo l’Italia si è adeguata alla normativa europea: possibili candidati a un rimpatrio volontario, infatti, non sono più soltanto i soggetti vulnerabili – madri sole, anziani, persone con problemi di salute – o donne vittime di tratta, ma anche persone irregolari, o che stanno per diventarlo, e richiedenti asilo che – viste mutate le condizioni politiche nel proprio paese – decidono di rinunciare allo status di rifugiato o alle protezione umanitaria, e scommettono su un rientro in patria (in questo caso, però, vengono prima fatte delle analisi anche dall’Alto Commissariato per i Rifugiati).
Ma in realtà esistono ancora dei “buchi” procedurali che rendono difficile il coinvolgimento nel rimpatrio assistito delle persone che hanno subito una espulsione e che – ad esempio – sono rinchiuse nei centri di detenzione. La questione è legata proprio all’espulsione, che secondo la legge Bossi-Fini impedisce il rientro in Italia per cinque anni (la legge italiana prevedeva il divieto per dieci anni, ma è stata proprio la Direttiva a riaccorciare il tempo). Chi accede al rimpatrio assistito, invece può rientrare in Italia in qualsiasi momento.
Il Dipartimento di Pubblica sicurezza ha già inviato una circolare, su sollecitazione della Questura di Milano che poneva interrogativi su questo punto, dando delle indicazioni circa il fatto che – se la persona non è stata espulsa per motivi gravi e chiede di entrare in un progetto di rimpatrio – l’espulsione va annullata, e anche le precedenti. Ma una circolare non basta: è necessario che il Dipartimento delle Libertà Civili emetta delle precise linee guida che uniformino la situazione a livello nazionale. Nonostante le sollecitazioni della Rete, però, per adesso il Dipartimento tace.
Le persone che hanno perso o stanno per perdere il permesso di soggiorno, o che addirittura sono già state espulse e sono rinchiuse in un Cie, inoltre, per ora non possono accedere al rimpatrio assistito anche per un altro motivo: non esistono progetti a loro rivolti. Per essere rimpatriati in questa modalità, infatti, bisogna entrare a far parte di uno specifico progetto, finanziato dal Fondo europeo per i rimpatri. L’ultimo bando riguarda il rimpatrio di circa 1000 persone, ed è valido fino a giugno dell’anno prossimo. All’inizio dell’estate usciranno i bandi per poter avviare rimpatri volontari da giugno 2014. Chiaro che, però, l’emergenza è adesso: nel 2014 è molto più probabile, con l’economia che – si spera – in ripresa, diminuirà la platea di chi vuole tornare nel proprio paese di origine.
Per quanto una cosa è certa: alcuni paesi non comunitari hanno, in molti casi, un tasso di crescita superiore a quelli europei. Dunque, in questi casi, il “ritorno volontario”, sempre di più, potrebbe essere una opportunità per rispondere in modo positivo a un processo migratorio fallito.
L’importante è che il programma di rimpatrio volontario non perda la sua finalità originaria e sia utilizzato per facilitare il ritorno delle persone che per diversi motivi desiderano tornare nel paese di origine. E non per incentivarlo.
Di seguito, un’intervista a Cristopher Hein, direttore del Consiglio Italiano dei Rifugiati, sul rimpatrio volontario: http://www.youtube.com/watch?v=CFwEwMaBMyc&feature=youtu.be