Con la mancanza di lavoro, la cassa integrazione che esplode, il freno sui consumi, e i dati sulla ripresa che non danno buone notizie per l’anno in corso, le famiglie italiane fanno i conti con un portafogli sempre meno ricco, ma anche con una precarietà lavorativa che spesso e volentieri significa dover essere super flessibili. Come fa una donna che ha dei figli o dei genitori anziani (o tutti e due), e quindi deve coniugare il suo tempo di lavoro a quello della famiglia? Come si sta riorganizzando il welfare familiare, quello curato (ancora) dalle donne, e sempre più spesso – nel nostro paese come all’estero – gestito grazie all’aiuto professionale di altre donne, nella grande maggioranza straniere, che si prendono cura della casa e dei figli in assenza dei “legittimi titolari”?
I dati dell’Inps 2011-2012 ci aiutano ad avere un quadro, che però deve essere anche interpretato facendo ricorso a delle esperienze concrete: purtroppo i “numeri”, soprattutto quelli riguardanti il versamento dei contributi, possono dire una cosa ma anche il suo contrario. I contributi, infatti, se da un lato per il migrante sono fondamentali al fine di vedere il proprio permesso di soggiorno rinnovato, dall’altro sono anche largamente percepiti come “inutili”, perché la legge permette il riscatto solo all’età di 65 anni, e con procedure difficilissime per il ricongiungimento con altri contributi versati all’estero. Di conseguenza, una donna di 25 anni che oggi lavora in Italia, non può sapere se resterà nello stesso paese per il resto della propria vita. Anzi (complice anche la crisi) pensa che molto probabilmente non sarà così. Dunque, non ha un interesse primario a che i suoi contributi vengano versati del tutto o in parte, se ha un permesso di soggiorno in corso di validità. Cosicché si verifica un meccanismo senz’altro negativo: i contributi vengono percepiti sia dal migrante che dal datore di lavoro come un costo in più, che non giova a nessuno. Una specie di tassa vessatoria. E, soprattutto in un periodo di crisi, è facilissimo che ci si metta d’accordo per non pagarli, magari alzando la tariffa dell’orario lavorativo alla colf/assistente familiare/baby sitter. Ad esempio: i dati ci dicono che le richieste di disoccupazione hanno avuto un boom tra il 2011 e il 2012, sia tra gli italiani che tra i lavoratori stranieri non comunitari (circa 30 mila in più per l’ordinaria – chi ha almeno 52 contributi settimanali nell’anno precedente – e circa 20 mila in più per i “criteri ridotti” – chi ha lavorato almeno 78 giorni l’anno precedente). Che novità, si dirà. Ma certo sarebbe interessante sapere se si tratta di una vera e propria diminuzione delle ore lavorate o anche, in parte, di uno “scivolamento” verso il nero.
Il lavoro domestico, tra l’altro, presenta numeri “strani”. Se da un lato aumentano le ore lavorate (2011 circa 861 mila, 2012 quasi 905 mila), diminuisce la presenza in questo settore dei lavoratori stranieri (che nel 2011 lavoravano 486.540.848 ore e nel 2012 460.569.392) . Che vuol dire? Aumenta la richiesta di lavoro domestico? Sicuramente è un mercato che “tira” sempre, perché la popolazione invecchia. Ma è anche possibile che quell’aumento delle ore lavorate rappresenti un incongruo “travaso” di lavoratori (che magari sono muratori) ma vengono “registrati” come colf. Si tratta di un aumento di lavoro domestico, ormai appannaggio anche delle donne italiane che cercano di “arrotondare” il bilancio familiare? Sicuramente, come rileva anche il Dossier della campagna Sbilanciamoci! in occasione della giornata delle Donne lo scorso 8 marzo, “Nel 2011 le donne italiane che lavorano come collaboratrici domestiche o familiari sono più di 163.000, circa 35.000 in più rispetto al 2002. Un dato che potrebbe segnalare che nel contesto della crisi la difficoltà a trovare lavoro spinge le donne italiane a tornare ad operare in questo settore”. Eppure le donne straniere certo non vengono “minacciate” dalla concorrenza delle donne italiane, e continuano a essere il volto principale dell’assistenza domestica. Come mai diminuiscono? Perdita di lavoro o scivolamento verso il nero?
Difficile dirlo, e la versione più attendibile è che ci siano entrambe le cose. “La famiglia per cui lavoro non è ricchissima, lo so, ci lavoro da anni, prima facevo le ore di pulizia, poi quando sono nati i bambini anche come baby sitter – racconta Gianina, rumena di 38 anni, che lavora a Roma – loro sono sempre stati molto corretti, però, assunzione con i contributi pagati, ferie, liquidazione eccetera. Io per la verità gliel’ho sempre detto che dopo un po’ potevano pure licenziarmi e avrei continuato a lavorare al nero, ma loro preferivano così. Poi, nell’ultimo anno le cose sono un po’ cambiate: la signora è andata in cassa integrazione – continua Gianina – quindi di fatto sta più ore a casa, anche se si arrangia con qualche lavoretto. Alla fine abbiamo trovato un accordo: mi hanno licenziato, io ho potuto accedere alla disoccupazione per sei mesi, loro mi hanno tagliato un po’ di ore e mi hanno un po’ alzato la tariffa oraria – prima prendevo 6,50 euro l’ora, e adesso ne prendo 8. Insomma, abbiamo cercato di restare bene tutti quanti”. Si tratta di un classico esempio di ricerca di un equilibrio negli interessi reciproci, l’asse della “contrattazione” nel lavoro domestico, che può portare grandi benefici come anche grandi contrapposizioni e sfruttamento. Ma esistono moltissimi casi in cui vigono ottimi rapporti e una solidarietà reciproca, che scatta soprattutto tra donne, a volte entrambe madri. In genere ci si “accomoda” sull’orario, sulla retribuzione, sulle ferie, su quando corrispondere la liquidazione. Questioni “interne” al nucleo datore di lavoro-colf, che non toccano lo Stato. Ma ormai si raschia il fondo del barile, e l’accordo sfocia nella richiesta di disoccupazione anche se non si tratta di disoccupazione vera e propria, ma solo di una diminuzione di orario (da ricordare che i collaboratori domestici hanno diritto a una sola richiesta di disoccupazione nel corso della loro vita lavorativa: e in molti se la stanno giocando adesso), e soprattutto, nella cancellazione temporanea dei contributi, che torneranno a “riemergere” quando sarà il tempo di rinnovare il permesso di soggiorno. Come ha fatto Helena, anche lei rumena e colf sempre a Roma: “Con i miei datori di lavoro l’accordo era chiaro: io preferisco guadagnare di più che avere i contributi versati, mi sembra che pure per la famiglia sia meglio, perché alla fine risparmiano – dice – io lavoro da due anni con loro, faccio otto ore, e poi ho altri lavoretti sempre al nero. Però adesso mi mettono in regola per 30 ore settimanali per qualche mese perché devo rinnovare a agosto il permesso. Vediamo, o mi daranno di meno all’ora, oppure contribuisco un po’ io ai contributi…”. Insomma, trattativa continua, su tutto. Anche sui favori ai fidanzati: “Il mio fidanzato lavora come edile nelle case, ma le ditte non lo mettono in regola, fa a ore – dice Beatriz, 27 anni, colf e baby sitter – allora ho detto ai miei datori di lavoro: voi mi licenziate, tanto io ho il permesso valido per due anni ancora, mi alzate un po’ il pagamento delle ore e assumete come colf il mio fidanzato, che però si paga da solo i contributi. Insomma, per noi va bene perché io guadagno un pochino di più, e lui sta tranquillo con i documenti. I miei datori si assumono un po’ un rischio, ma minimo, e poi gli fa piacere aiutarlo, perché lo conoscono e sanno che è un bravo ragazzo”.
Insomma, in assenza di politiche specifiche, nelle case italiane ci si mette d’accordo. E si aspetta che passi la “buriana”.