Stiamo assistendo a una crisi generale che investe sia l’assetto entro il quale si sono definiti i parametri nazionali della cittadinanza, sia il concetto stesso di cittadinanza moderno, quale status omogeneo racchiuso in determinati confini territoriali, politico-giuridici − sempre più sfidati dalle migrazioni odierne. Questa tendenza investe tanto la configurazione del mercato del lavoro tipicamente novecentesca, quanto le forme più note della politica e della democrazia. L’Europa costituisce, da questo punto di vista, un esempio privilegiato. La doppia cittadinanza, nazionale ed europea, introdotta dai trattati, non è priva di contraddizioni. Si veda l’insistenza con la quale alcuni Stati membri avanzano la proposta di riscrivere il trattato di Schengen così come le ipotesi, discusse in paesi come il Belgio e la Germania, di limitazione dell’accesso al welfare nei confronti dei cittadini del Sud e dell’Est Europa. Tuttavia, in positivo, si rende evidente l’emergere di molteplici soggettività che avanzano richieste “eccedenti”, incarnando nuove istanze di democrazia. In particolare, emergono forme innovative di strutturazione dell’esperienza dell’essere in comune: i cittadini danno vita a una reciprocità relazionale dai tratti del tutto originali. È in questo orizzonte che la stessa cittadinanza diviene un campo di perenne tensione all’interno di un processo aperto e dinamico, nel quale sono proprio le concrete pratiche sociali a porre in discussione e riplasmare i modelli istituzionali e politici dati. In che misura le istanze soggettive presenti nei conflitti attuali − nelle loro differenze − costringono a ripensare la politica nelle sue modalità e contenuti, la democrazia e i paradigmi tradizionali della cittadinanza?
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