“Io sono una priorità” è uno degli ultimi slogan scelti dal movimento degli #italianisenzacittadinanza impegnati dal 2016 in poi in una battaglia praticamente quotidiana per la riforma della legge sulla cittadinanza n.91/92.
Una legge che è nata già vecchia, come evidenzia CILD in un prezioso e-book pubblicato nei giorni scorsi. I primi tentativi della allora Rete antirazzista di chiederne la modifica risalgono alla fine degli anni ’90. In seguito, la battaglia per la riforma è stata rilanciata più volte prima dal movimento G2 e dalla campagna L’Italia sono anch’io, poi dal movimento degli #italianisenzacittadinanza che non ha mai smesso di documentare le storie quotidiane di ingiustizia che vivono migliaia di giovani nati o cresciuti in Italia, eppure stranieri per legge. Ne abbiamo parlato molte volte, ad esempio qui. L’11 febbraio scorso hanno persino scritto una lettera aperta al Presidente del Consiglio Draghi.
Oggi si torna a parlare della riforma a seguito delle dichiarazioni del nuovo segretario del partito democratico Enrico Letta che l’ha inserita tra le priorità del suo programma. Il contesto politico, sociale e culturale non è dei più favorevoli a una riforma della normativa su un tema che è stato in passato utilizzato strumentalmente nel dibattito politico.
Eppure, ci sono molti motivi per sostenere un rilancio della campagna per riformare la legge sulla cittadinanza proprio in un momento così straordinario come questo.
Sono gli stessi giovani italiani di fatto a spiegarli.
Abbattere subito almeno alcune barriere amministrative
Alle barriere normative, innalzate con il dl.113/2018 e abbattute solo molto parzialmente con il dl.130/2020, che ha ridotto i tempi della procedura da 48 a 24 mesi (prolungabili a 36), si aggiungono infatti anche molti ostacoli amministrativi che si traducono in un vero e proprio “accanimento burocratico”.
“Forse se venissimo ascoltati con attenzione potremmo mettere in evidenza i problemi incostituzionali della legge attuale, avremmo ad esempio segnalato che forse solo sburocratizzando il processo della cittadinanza avremmo migliorato la vita di tante persone. Non vogliamo più essere solo una voce nel menù, ma persone con dignità che si siedono al tavolo dove si parla dei propri diritti”, ha scritto in un’altra lettera, questa volta rivolta a Enrico Letta, l’italianosenzacittadinanza Youness Warhou.
Un ostacolo particolarmente pesante in questo momento di crisi è la necessità, per i giovani non nati, ma cresciuti qui, di documentare un reddito annuale di più di 8200 euro per gli ultimi tre anni precedenti alla presentazione della domanda di cittadinanza per residenza. Reddito che per altro viene verificato, finché non si esaurisce la procedura, anche per gli anni successivi al momento di presentazione della domanda. Vincolare la garanzia di un diritto fondamentale come quello alla cittadinanza ad un criterio di censo è profondamente ingiusto. Oggi, che con la pandemia, la precarietà lavorativa è una condizione che si estende ancor più che in passato a molti lavoratori, giovani e anziani, italiani e stranieri, tale requisito di reddito risulta ancora più iniquo.
I dati Eurostat pubblicati di recente evidenziano che il numero delle acquisizioni di cittadinanza ha raggiunto in Italia un picco nel 2016 con 201.591 esiti positivi, ma negli anni successivi i dati sono scesi notevolmente. Nel 2019 le acquisizioni di cittadinanza italiana sono state 127mila.
La carenza di un organico sufficiente dell’ufficio del Dipartimento per le Libertà Civili che segue le pratiche per la cittadinanza è una delle motivazioni che sono spesso addotte per giustificare il ritardo. Per aumentare gli organici di un ufficio pubblico non serve una nuova legge: si può fare stanziando le risorse necessarie o trasferendo personale da altri uffici.
Infine, diversi operatori di sportelli legali segnalano che la nuova piattaforma online che deve essere utilizzata per presentare le domande di acquisizione della cittadinanza, presenta molti problemi di funzionamento che ostacolano il corretto compimento della procedura.
Una battaglia culturale
Gli argomenti sollevati da parte di coloro che hanno impedito e vogliono ancora impedire che la riforma della legge sulla cittadinanza vada in porto sono sempre le stesse e sono fuorvianti.
La prima tende a collegare la questione della riforma alle politiche migratorie. Si tratta di un imbroglio perché la riforma riguarderebbe migliaia di persone che sono nate, cresciute o residenti da molti anni in Italia: la riforma sulla cittadinanza non c’entra niente con le politiche migratorie. Rilanciare un’ampia campagna di informazione e di dibattito su cosa significa oggi essere “cittadini” e spiegare che la legge sulla cittadinanza riguarda i diritti di coloro che sono nati o che vivono stabilmente nel nostro paese, è dunque molto importante per creare un terreno favorevole alla riforma.
La seconda argomentazione è proprio falsa: non è vero che l’Italia è il paese europeo che è stato più permissivo in materia di riconoscimento della cittadinanza, come mostrano bene i dati sotto riportati, sempre ricavati da Eurostat.
La terza argomentazione è fortemente identitaria e fa appello a un’idea di “nazione” e di ”cultura” italiana che si rifiuta letteralmente di vedere la società italiana per quella che è già: plurale e meticcia.
La novità rispetto ad alcuni anni fa è che, per fortuna, le voci dei diretti interessati si moltiplicano, sono sempre più forti e più organizzate, le argomentazioni sempre più solide, perché le vivono sulla propria pelle quotidianamente.
Ragion per cui, ne siamo sicuri, se non demordiamo, prima o poi questa riforma così sofferta, si farà.