di Cinzia Gubbini
Se deve descrivere un’immagine che rappresenta la riuscita, e anche il senso, del suo lavoro è la partita di calcetto in cui Simone, italiano, Arold, peruviano, Mario, cinese, Dan, rumeno, Freddie, filippino giocano insieme, fuori dalla scuola. Si divertono, rispettano le regole del gioco, si riconoscono come compagni di classe. I nomi sono tutti di fantasia. Ma questa è una storia vera. Una specie di cronaca dall’incubo italiano: come è andata a finire una classe che, al primo anno della scuola media, contava più immigrati che italiani: su 21 ragazzi, 11 avevano origini straniere e che stranieri: di otto nazionalità diverse. Il distillato di ciò che, secondo alcuni (pochi) pedagogisti e alcuni (molti) politici non bisognerebbe mai fare. E non è finita: perché questa classe che sembrava un po’ un laboratorio, formatasi quattro anni fa, proprio quando in Italia imperversava la polemica sul tetto del 30% di alunni stranieri – che poi si tentò di introdurre l’anno successivo – era la prima media della scuola di una complicata periferia romana. Con un nome importante, e in fondo anche un po’ profetico: la scuola secondaria di primo grado Antonio Gramsci del Trullo.
Una classe “sbilanciata”
Angela Lamensa è stata la loro insegnante di italiano, storia e geografia. Quando la dirigente scolastica dell’epoca mise in fila sulla carta i nomi degli alunni di quella prima, le perplessità erano tante. Ma per varie ragioni, era necessario procedere in quel modo. Insegnanti e dirigenti erano d’accordo. E i genitori? “Siamo stati bersagliati – racconta Lamensa – soprattutto il primo anno. Paure, pregiudizi, e non solo da parte degli italiani. La preoccupazione dei genitori dei ragazzi italiani che il programma subisse chissà quale rallentamento. Davvero – aggiunge Lamensa – a volte i genitori non sanno come funziona la scuola. E a volte, e questo è il peggio, le famiglie non si fidano degli insegnanti. E fanno male. Certo, non siamo depositari né delle verità assoluta, né di chissà quale garanzia per il futuro. Però, in genere, il nostro lavoro lo facciamo seriamente e con scrupolo. La classe multietnica? – prosegue Lamensa -Ne ero sicura, ma comunque quell’esperienza un po’ al limite me ne ha dato la conferma: le differenze aiutano, e non è retorica. Ne è una prova il fatto che quegli stessi genitori, alla fine dell’anno, mi hanno ringraziato. Tutti i ragazzi erano riusciti a trovare la loro strada, a formare la loro personalità, a crescere e a imparare”.
Questa è la vita
La classe è arrivata quasi indenne, con poche bocciature e qualche trasferimento (di un paio di ragazzi stranieri per motivi di lavoro dei genitori, nessun italiano se ne è andato) al traguardo della terza media e dell’esame di Stato. Dove c’è chi è andato molto bene e chi un po’ meno. In base alle proprie capacità, al background culturale della famiglia – vera, inattaccabile differenza – a quanto si era impegnato nel corso degli anni. “La ‘cittadinanza’ non ha fatto alcuna differenza. Nel senso che tra i più bravi ci sono stati alcuni ragazzini immigrati e alcuni italiani che, si capiva subito, erano molto dotati. Ma anche un ragazzo filippino arrivato al secondo anno, che non parlava una parola di italiano. – racconta Lamensa – Ma con una personalità un po’ fuori dal comune: molto socievole, aperto, sicuro di sé. Bè, ha imparato alla perfezione l’italiano in due anni ed è uscito con la media del sette. In classe era molto ammirato per questa sua personalità travolgente, era un po’ un personaggio. E ho visto come per i suoi compagni vedere un ragazzo che arriva a scuola con evidenti e gravi svantaggi, ma riesce a recuperarli grazie all’impegno e all’intelligenza, sia stata una grande lezione”.
Dopo il diploma quella classe, come sempre capita, si è divisa: chi al liceo, chi alle industriali, chi all’avviamento al lavoro. Ed ecco che le differenze di “origine” cominciano a pesare di nuovo, nel passaggio tra la scuola media – che è ancora la “scuola di tutti” – e le superiori, che rappresentano un primo “posizionamento” nella società. Di riffa o di raffa, gli studenti di origine straniera, dotati o no, scelgono maggiormente le scuole tecniche e gli italiani scelgono con maggiore libertà una scuola come il liceo, che forma per l’università.
“Per questo non capisco chi vorrebbe snaturare le scuole elementari e medie, dai decisori politici a molte famiglie preoccupate da troppa ‘commistione’ – dice la professoressa Lamensa – Come insegnante posso dire che per una persona in formazione avere a disposizione una realtà anche dura, ma vera, fatta di tuoi simili in carne e ossa che hanno però modi di fare diversi, atteggiamenti diversi, provenienze diverse, riferimenti culturali in parte diversi, è una occasione unica, che difficilmente si ripeterà in futuro”.
Ragazzi competenti
Solo belle parole? Bisognerebbe ascoltarle se a dirle è una che le mani nella “diversità multiculturale” ce le ha messe, e ha ottenuto buoni risultati sia sotto il profilo formativo che delle competenze: “Questo è un altro elemento che troppo spesso viene sottovalutato, o ridotto a mero ‘buonismo’ – dice Angela Lamensa – la scuola ha un senso e ottiene risultati solo se si pone anche in una prospettiva educativa. Questo è un concetto fondamentale, ma troppo spesso dimenticato. Se non sai rapportarti agli altri, se non sai comportarti, difficilmente saprai studiare e assimilare competenze. Certamente noi insegnanti facciamo i conti con il fatto che troppo spesso la scuola viene chiamata a educare da sola, senza il supporto delle famiglie. Non esagero – continua la professoressa – se dico che mi sono trovata di fronte a ragazzi che non sanno né stare seduti composti né usare un diario e programmare la settimana. Aggiungiamo che la scuola non è attraente per questi ragazzini che arrivano da noi a 11-12 anni, bambini e bambine che stanno diventando uomini e donne. E allora un conto è studiare la geografia con la solita cartina attaccata al muro. Un conto è quando la mia alunna peruviana racconta del viaggio di sua madre. Un altro conto è quando il mio allievo rumeno si alza e spiega perché lui non è italiano. Mi servirebbero i computer? Certo, mi servirebbero – dice Lamensa – e mi aiuterebbero a rendere le mie lezioni più vicine ai miei ragazzi. Ma niente cattura la loro attenzione come il loro compagno di banco che racconta qualcosa di sé, qualcosa che l’altro non sa, non immagina, anche se è così vicino. Allora scatta la voglia di saperne di più, di capire un po’ meglio, la cartina geografica non è attaccata al muro, ma è seduta lì vicino”.
Il peso dell’adolescenza. Che non ha cittadinanza
E’ il bello del mondo globale, che non tutti riescono a cogliere. Ma ci sono anche le difficoltà, tante. “Capita di tutto. Capita di doversi mettere in mezzo a situazioni particolari, delicate. Perché la migrazione, se il ragazzo l’ha vissuta e non è nato qui in Italia o arrivato da piccolo, può diventare un bagaglio molto pesante da portare. Ricordo qualche anno fa – dice ancora la professoressa – un alunno brasiliano. Bravo, impegnato. Che in terza media cominciò prima a essere del tutto disinteressato e poi a non venire più a lezione. Parlai a lungo con sua madre. Mi raccontò che passava tutto il tempo sul letto, fissando il soffitto. In pratica: si era depresso. Voleva tornare in Brasile, gli mancava casa sua”. Ci sono alcuni pregiudizi reciproci difficili da smontare, ma la scuola e la convivenza giorno dopo giorno sono veicoli di comunicazione potentissimi: “Sono successi episodi anche gravi, che mi hanno profondamente colpito. Ragazzine, spesso dell’est, molto deboli nei confronti dei maschi che riuscivano con grande facilità a raggirarle, a approfittarsi di loro. E’ stato difficile, ma anche istruttivo – dice Lamensa – far capire a tutti, compresi i genitori, quanto fosse importante per quelle ragazze riflettere sulla possibilità e sul potere di sapere dire di no. Quanto questo avrebbe determinato il loro futuro”.
Musica, maestro
In quella classe che è andata avanti insieme per tre anni c’era chi spiccava, chi rimaneva più in disparte. Il segreto? “Riuscire a ascoltarli tutti e a trovare per ciascuno la sua strada”, dice Lamensa. In un contesto certamente distratto da mille emergenze, c’è stato Simone, un ragazzo delicato, amante dello studio, sensibile – forse troppo – che ha vinto un concorso di scrittura, e partecipato, arrivando alle semifinali, alle Olimpiadi della Matematica: “Ecco, lui che per la sua personalità particolare in un’altra classe, in una classe ‘normale’, forse non sarebbe stato compreso – spiega Lamensa – in quella classe forse un po’ complicata, ma anche molto dinamica, ha trovato il suo posto. E a tutti Simone andava bene così, per come era. E anche lui si è accettato, ha trovato la sua strada e continua con determinazione a percorrerla. Altre classi sono magari più ‘composte’, però sono anche più piatte – ragiona la professoressa – Tutti sono un po’ uguali agli altri, non c’è quel ‘movimento’ che consente a ciascuno di far emergere il proprio tono”.
Poi, le classi “diverse” vanno anche “accordate”. Per farle funzionare è necessario che ci siano dei momenti collettivi, in cui ci si riconosca come un “uno”. “Per noi è stata la gita scolastica – racconta ancora Angela Lamensa – siamo stati in Germania. E due sono stati i momenti clou, che ci hanno davvero uniti, due esperienze emozionali fortissime, anche se molto, molto diverse – racconta Lamensa – la prima è stata la visita al campo di concentramento di Dachau che ha colpito profondamente i ragazzi, dal primo all’ultimo. E il secondo è stato quando, su loro richiesta, li abbiamo portati a vedere lo stadio del Bayer Monaco. C’era da vederli: di fronte a quel bellissimo stadio, di sera illuminato da luci coloratissime, uno spettacolo, i ragazzi e le ragazze erano a bocca aperta, emozionati, contenti, uniti. Erano davvero una classe”.
A volte, insomma, basta poco.
Ma pure quel poco è sempre più a rischio, perché le scuole stanno perdendo finanziamenti. Sempre il solito discorso, si dirà. Però è impossibile non affrontarlo: “Ormai programmare, fare progetti, stimolare quella didattica che punti sulle individualità è sempre più difficile. Proprio quando, invece, è sempre più indispensabile”, dice ancora la professoressa Lamensa. Allora è più facile mettere i tetti, appiattire, omogeneizzare la pappa che va giù meglio. Il risparmio economico, forse, c’è. Ma si aprono voragini.