Il 6 marzo migliaia di firme verranno consegnate alla Camera dei Deputati da parte dei promotori della campagna L’Italia sono anch’io, mentre siamo in piena recessione, la disoccupazione è al 9,2% (ma quella giovanile è pari al 31,2%), la scure dei tagli “tecnici” si abbatte sul welfare e sui diritti dei lavoratori, la distanza tra ricchi e poveri aumenta sempre più senza che coloro che risiedono in Parlamento sentano il bisogno di chiedersi chi rappresentano veramente. Si tratta dei “soliti antirazzisti, viziati da eccessi di autoreferenzialità e di buonismo” che vivono in un mondo a parte, incapaci di allungare lo sguardo sul contesto economico e sociale e sulla crisi della democrazia che li circonda? La nostra risposta è no, di seguito tentiamo di spiegare il perché.
Il grande successo della raccolta di firme (di gran lunga superiori alle 50.000 richieste) su due proposte di legge di iniziativa popolare per una riforma della legge sulla cittadinanza (non solo con riferimento ai nati in Italia e ai minori) e per l’introduzione del diritto di voto amministrativo per i cittadini stranieri regolarmente residenti, merita attenzione.
Va innanzitutto messa in evidenza la straordinaria mobilitazione capillare che la campagna ha saputo stimolare coinvolgendo, ben oltre i soggetti promotori, associazioni territoriali, comuni piccoli e grandi, ma anche singoli individui. L’ampiezza del comitato promotore è stata sicuramente di aiuto, ma la sensazione è che abbia più che altro funzionato da centro propulsore, da punto di riferimento per centinaia di persone che in tutto il paese e in piena autonomia, hanno deciso di impegnare parte del proprio tempo nella raccolta di firme, nel tempo libero, ma anche sul proprio posto di lavoro. Questa adesione diffusa non era assolutamente scontata per più motivi.
A differenza di quanto è avvenuto su altri temi (l’acqua, il nucleare, il sistema elettorale) al centro delle proposte di legge della campagna vi è la rivendicazione dei diritti di cittadinanza e di voto dei cittadini stranieri non comunitari: coloro che erano abilitati a firmare (i cittadini italiani) e molti di coloro che hanno raccolto le firme non costituiscono i destinatari diretti delle proposte di legge, qualora queste venissero eventualmente approvate.
In secondo luogo il lancio della campagna ha seguito un decennio di martellamento politico e mediatico che ha scelto i migranti e i cittadini stranieri residenti come uno dei capri espiatori privilegiati del malessere sociale diffuso. Basti ricordare il clima politico e culturale che ha reso possibile l’approvazione della legge Bossi-Fini (2002), l’annuncio, mai divenuto realtà, della riforma del T.U. 286/98 sotto l’ultimo Governo Prodi, la proliferazione assolutamente trasversale alle forze politiche delle ordinanze sindacali creative in materia di ordine pubblico, poi di welfare, fino ad arrivare all’approvazione delle norme che hanno composto il cosiddetto pacchetto sicurezza (2008-2009) dell’ultimo Governo Berlusconi. Sia pure con linguaggi e accenti anche molto diversificati, il dibattito pubblico riferito ai migranti almeno dal 2002 in poi è stato caratterizzato da uno slittamento dell’ordine del discorso dalla sfera dei diritti (sia pure con non poche cadute, egemone sino agli anni 2000-2001) a quella della loro progressiva erosione. Da un lato il fantasma dell’“insicurezza percepita” (la presunta relazione di causalità tra la crescita della popolazione straniera e l’aumento della criminalità che troppi rappresentanti politici e operatori mediatici hanno proposto in particolare nel biennio 2007-2009), dall’altro quello dell’insostenibilità economica e sociale dell’immigrazione (“il peso” che i cittadini stranieri eserciterebbero sulla nostra finanza pubblica e sul sistema di protezione sociale) hanno fatto da sfondo a discorsi, retoriche e pratiche istituzionali sicuritarie e esplicitamente discriminatorie.
L’Italia sono anch’io ha lanciato un messaggio completamente diverso: vi sono ormai quasi 5 milioni di cittadini stranieri stabilmente residenti nel nostro paese che sono parte integrante della società italiana. E’ il tempo di “vederli” e di “riconoscerli” favorendo il loro inserimento sociale non solo, ma anche grazie alla facilitazione dell’acquisizione della cittadinanza e al riconoscimento del diritto di voto. La sostituzione del binomio migranti/diritti a quelli ripetutamente riproposti in questi anni (migranti/criminali, migranti/insicurezza) è il messaggio chiave della campagna e questo “mutamento di prospettiva” è forse uno dei suoi principali contributi, indipendentemente dall’esito che le proposte di legge avranno in Parlamento. Un mutamento di prospettiva che ha contaminato rappresentanti politici e amministratori, intellettuali e giornalisti: i temi delle proposte di legge di iniziativa popolare sono stati oggetto di dichiarazioni di eminenti cariche dello stato, di decine di articoli su quotidiani e siti web, di trasmissioni radio e tv come mai era accaduto prima. La campagna ha persino spinto alcuni tra gli intellettuali più conservatori e intolleranti a riprendere la parola, evidentemente intimoriti dalla possibilità che il Parlamento possa prendere finalmente in considerazione la possibilità di discutere le proposte e di trasformarle in leggi dello stato.
Ma, come dicevamo all’inizio, il significato della campagna travalica i contenuti specifici delle proposte di legge di cui si è fatta promotrice. Come già era avvenuto per la raccolta di firme e poi per il voto sul referendum sull’acqua pubblica, anche in questo caso è emerso che quando una proposta è chiara e convincente e rispecchia il vissuto quotidiano di gran parte della popolazione, è capace di incontrare ampio consenso e di mobilitare energie nuove anche su temi considerati “di frontiera”. L’Italia è meticcia e molti cittadini italiani non solo sono disposti a riconoscerlo, ma sollecitano scelte istituzionali conseguenti attivandosi insieme ai moltissimi giovani figli di cittadini immigrati ma nati e/o cresciuti in Italia (e dunque cittadini di fatto) sempre più presenti nei movimenti sociali, nelle associazioni e anche nei partiti. Senza pari opportunità la democrazia è monca e la coesione sociale impossibile: per chi si è mobilitato in questi mesi questo è chiaro, così non è purtroppo per molti di coloro che sono seduti in Parlamento.
La campagna ha anche lanciato un altro segnale, sicuramente più modesto ma altrettanto significativo: esiste un’esigenza diffusa di partecipazione che cerca su temi e obiettivi specifici modalità di espressione e di organizzazione. La scelta di tornare in piazza, per strada, implica impegno costante, fatica e, soprattutto, la disponibilità e la pazienza di parlare, per convincerle, con migliaia di persone.
Nell’era di Facebook e di Twitter e delle azioni eclatanti può darsi che qualcuno consideri questa una formula superata. Ma per riempire il vuoto che separa i rappresentanti dai rappresentati i contatti virtuali da soli non sono sufficienti. Occorre tornare a parlare con le persone in carne e ossa, tessere relazioni, individuare obiettivi comuni e su questi mobilitarsi, avere delle idee, condividerle ed essere disponibili a discuterle con chi ha opinioni diverse. L’Italia sono anch’io, al di là dei suoi contenuti specifici, ce l’ha ricordato. Se il Parlamento non tenesse conto delle firme che il 6 marzo verranno depositate alla Camera, allargherebbe ulteriormente la distanza che lo separa da una parte non irrilevante della società italiana.