Adam Kabobo, l’uomo originario del Ghana che nel maggio 2013 a Milano uccise tre persone armato di un piccone, è stato condannato a 20 anni di reclusione. La decisione è stata presa il 20 gennaio dalla seconda Corte d’Assise d’Appello di Milano che ha confermato la sentenza emessa lo scorso giugno dal gup di Milano. Non solo: i giudici hanno condannato Kabobo al pagamento delle spese legali e al risarcimento delle parti civili: tra queste spicca il Comune di Milano. Già perché secondo i giudici l’ “intenso allarme” provocato da Kabobo costituirebbe un “danno per l’amministrazione comunale”, poiché “un omicidio plurimo di grande efferatezza e clamore mediatico diffonde l’idea dell’inefficienza delle attività intraprese” dal Comune “in sinergia e coordinamento con le iniziative del Prefetto e del Questore”, e porta “all’azzeramento degli effetti auspicati in conseguenza della costosa attività di promozione dell’immagine della città anche all’estero”, anche in vista di Expo2015. Il danno, si legge nelle motivazioni della sentenza, sarebbe stato prodotto dal “grande clamore mediatico sui giornali nazionali e sulle reti televisive, anche straniere, della notizia dell’omicidio di tre cittadini milanesi, colpiti a picconate in piena città” e dall’ “attenzione dedicata dai mass-media alla tristissima vicenda”.
Nel giugno 2014 il gup di Milano decise di infliggere a Adam Kabobo 20 anni, il massimo della pena possibile tenendo conto della semi-infermità mentale riconosciuta dalla perizia psichiatrica. Un’infermità causata anche dalla “condizione di emarginazione sociale e culturale”, come sentenziò allora il giudice. Ma la Corte d’Appello, pur riconoscendo che “l‘azione criminale di Adam Kabobo fu agevolata dalla malattia”, considera il suo atto omicida un “lucido progetto di esprimere rancore e sfinimento per le sue esperienze di quotidiana lotta per la sopravvivenza”. Inoltre, secondo i giudici Kabobo avrebbe agito guidato dalle “voci che gli ricordavano ciò che avveniva nei suoi territori d’origine ove le persone uccidevano con i picconi”: ciononostante, le allucinazioni uditive “non stabiliscono che Kabobo debba aggredire e uccidere, ma si limitano a ‘suggerire’ una determinata condotta [..] per scaricare emotivamente la tensione interna causata dal rancore che egli provava nella realtà quotidiana, e per dare corso alla sua volontà di imporre una svolta radicale alla situazione di abiezione che egli tutti i giorni, da alcuni mesi, viveva lucidamente”.
La strage compiuta da Adam Kabobo fu terribile. Ora che la Corte di Appello si è espressa, devono far riflettere le parole usate dai giudici: rancore, sfinimento, quotidiana lotta per la sopravvivenza, tensione interna, abiezione. Parole che tracciano un quadro di totale isolamento sociale e che mostrano come una persona richiedente protezione sia stata invece abbandonata a se stessa. “Non è l’immagine di Milano ad essere lesa – afferma la difesa – quanto l’immagine degli apparati dello Stato che non sono risultati in grado di prendersi carico di un soggetto individuato, già all’epoca della detenzione a Lecce, come affetto da problemi psichiatrici gravi“.