di Amalia Chiovaro e Stefano Galieni
Pubblicato sul sito dell’Associazione Adif- Diritti e Frontiere
L’approccio dei media nel raccontare e costruire la percezione collettiva della realtà è spesso strutturato su basi fondamentalmente emotive. L’Associazione Carta di Roma lo sa bene ed è ciò che ha raccontato nella presentazione del terzo rapporto annuale “Notizie di Confine”, tenutasi il 15 dicembre scorso presso la Camera dei Deputati. Un rapporto che analizza la carta stampata, i telegiornali nazionali e le buone e cattive pratiche dell’informazione. Quest’anno, inoltre, è stato introdotto il tema dell’hate speech e del dangerous speech nei media. Una analisi quantitativa e qualitativa dell’informazione, dunque, che si fermava a prima degli attentati di Parigi, degli eventi di Colonia di Capodanno e che ora rischia di essere già meno attuale.
Oggi, soprattutto in Italia, si va riproponendo la figura del capro espiatorio che travalica persino l’ “allarme terrorismo”. Con l’allarme si sono effettuate decine di espulsioni (67 al 13 gennaio), per motivi di sicurezza, che non hanno trovato alcun ostacolo giuridico, in gran parte sulla sola base dell’aver espresso pubblicamente o in rete, opinioni, certo inaccettabili, ma opinioni. Questo in un paese in cui rappresentanti politici possono tranquillamente predicare l’odio razziale senza pagarne le conseguenze.
L’islamofobia ha assunto valore fondante nella comunicazione, soprattutto nelle cronache locali, per indicare una incompatibilità fra i cosiddetti sistemi di valori, si pensi ai fatti di Vignola, di Roma e di Desenzano del Garda. Con gli eventi di Colonia, infine, si è reimposto il tema del “migrante potenziale stupratore” e quello del profugo come pericolo per la collettività.
Se il 2016 manterrà questo tipo di paradigma, anche alcuni afflati umanitari che si sono registrati nel 2015 rischieranno di essere sommersi da tale psicosi. Non basta ribadire che sono pochissimi fra i musulmani, anche fra i più fondamentalisti, quelli a compiere una scelta di violenza, come non basta dire che le aggressioni a sfondo sessuale, individuali o da branco, attraversano indistintamente l’intero pianeta.
L’immaginario collettivo, la percezione che i media spesso orientano, evita di avere memoria e preferisce imporre la cronaca come unica dimensione narrativa.
Ed è per questo che proviamo oggi a ragionare di “Notizie di Confine”.
Riteniamo utile uscire dalla cortina fumogena dell’oggi, per avere almeno un anno di pregresso su cui provare a ridisegnare informazione.
Alla presentazione sono intervenuti, soprattutto, esponenti di quel mondo che da decenni si occupa di immigrazione e, se escludiamo il tavolo di presidenza, non c’erano certo giornalisti affermati, conduttori di talk-show o direttori di testate che solitamente lasciano una certa impronta nella costruzione della figura dello straniero. Un’altra assenza che non passa inosservata riguarda quanti, ogni giorno, hanno a che fare con gli arrivi e in generale con l’accoglienza. Se da un lato, quindi, chi avrebbe dovuto ascoltare i risultati del rapporto non si trovava in sala, dall’altro coloro che avrebbero potuto porre delle domande, aprendo così un serio dibattito attorno al tema dei media e della narrazione delle migrazioni, non ha potuto farlo, data la rigidità di un protocollo che non si addice al lavoro da essi svolto.
Tutto questo ha sicuramente creato un curioso effetto di straniamento e forse anche un po’ di stupore.
Il rapporto, curato per la prima volta dall’Osservatorio europeo sulla sicurezza, offre molti spunti di riflessione utili per chi scrive, o realizza servizi televisivi, e intriganti per i semplici osservatori.
I primi elementi li ha forniti il Presidente dell’Associazione Carta di Roma, Giovanni Maria Bellu, da sempre attento a queste tematiche. Ha spiegato che nel 2015 i titoli in prima pagina, destinati al tema, dei sei grandi quotidiani presi in esame, ovvero L’Avvenire, La Repubblica, La Stampa, Il Corriere della Sera, Il Giornale e L’Unità, sono aumentati dal 70% al 180%, mentre i servizi nei notiziari televisivi sono quadruplicati. Eppure, nei primi 10 mesi del 2015, in Italia il numero delle persone giunte attraverso sbarchi è diminuito del 12% e se un aumento dei profughi si è registrato in alcuni paesi europei, questo non è fenomeno nuovo né epico nelle dimensioni.
Alcuni eventi “notiziabili” hanno certamente contribuito a riempire le pagine dei quotidiani, dalla strage del 19 aprile scorso, alla foto del corpo del piccolo Aylan sulle coste turche, che tanti ha commosso, a quanto accaduto sugli scogli di Ventimiglia, senza dimenticare le infinite file di persone che hanno affrontato il lungo percorso dei Balcani. E ancora il terrorismo, che molti continuano a voler connettere tanto all’islam quanto all’immigrazione, e le problematiche connesse all’accoglienza, con gli inevitabili pesanti risvolti giudiziari. Insomma, tanti filoni per tante diverse narrazioni. Il risultato è che per i 304 giorni presi in esame, sono solo 39 quelli in cui non era presente almeno un articolo/titolo sul tema. Si tratta, in totale, di 1452 notizie in prima pagina. L’Avvenire supera tutti con 300 titoli su 304 giorni di uscita, seguono Il Giornale e La Repubblica con 271, poi via via gli altri, ricordando che L’Unità ha dedicato 116 titoli, pur essendo tornato in edicola dal 30 giugno.
Il tono, soprattutto nei titoli, è genericamente allarmistico nel 47% dei casi e va sottolineato il ruolo record de Il Giornale nella produzione di notizie “ansiogene”.
Parlando sempre di carta stampata, a differenza degli anni precedenti, è interessante vedere come stanno irrompendo, attraverso il racconto delle migrazioni, le dimensioni europee ed extraeuropee. Si legge in continuazione del muro in Ungheria, di quanto accade a Calais, in Grecia, in Turchia, sui Balcani e in Libia. Di fatto non solo attraverso questi titoli si denota una dimensione continentale ma, per assurdo, chi prova ad approfondire riesce a costruire quello spazio di “politica estera”, di cui la stampa italiana è sempre stata mancante. Un’occasione, questa, che potrebbe essere sfruttata per uscire dal provincialismo inadeguato al nostro presente e che invece rimane epifenomenica. La notizia viene spesso decontestualizza e i soggetti della migrazione sono fotografati in un preciso istante, ma quasi mai sorgono interrogativi in merito al passato e al futuro di questi uomini, donne e bambini.
Il nesso immigrazione e terrorismo viene imposto come verità sancita, tralasciando del tutto il racconto di una società che sta cambiando, anche nella sua impostazione pluriculturale, grazie all’immigrazione. Dal rapporto sembra che soltanto l’Unità e L’Avvenire abbiano prodotto titoli e articoli con spunti e stimoli di riflessione, sul rapporto fra immigrazione e società. Per quest’ultimo quotidiano, di chiara matrice cattolica, il confronto con il mondo islamico risulta fecondo e interessante, meno per altri. A seguire e in calo in tutti i quotidiani, tranne Il Giornale, l’accentuazione del nesso fra immigrazione, criminalità e sicurezza, laddove per sicurezza si intende l’ordine pubblico, quanto le questioni di ordine sanitario. Tranne per un paio di vicende di cronaca nera, in molti giornali sono diminuiti i titoli sensazionalistici. Poco, ancora, lo spazio di interconnessione con economia e lavoro. Solo L’Avvenire sembra voler dedicare un certo rilievo alle notizie connesse allo sfruttamento di migranti, mentre altri quotidiani provano, ogni tanto, a riproporre l’equazione migrante = risorsa.
Ampio margine, infine, è stato dato alle “Parole dell’immigrazione”, per esempio attraverso una mappa fattoriale che riporta i termini più utilizzati da ogni testata. La Carta di Roma riconosce il ruolo supremo delle parole e il lavoro che sta portando avanti ha una doppia valenza. Non c’è solo l’esigenza di rispettare un codice deontologico con il giusto utilizzo delle parole, ma anche la volontà di affidare ad esse il compito descrivere il nuovo volto del Paese. Quella che abbiamo davanti è una società, che piaccia o no, sempre più meticcia e, spesso, i primi a non riconoscere tale fatto sono proprio gli operatori del settore.
Non è un caso che la Carta di Roma sia tra i promotori di No hate Speech , una campagna contro la diffusione di odio sul web. Ciò che si chiede è di impedire la diffusione di messaggi che incitino alla violenza e alla discriminazione e che ci sia un maggior controllo delle fonti, per combattere quel nuovo sistema di comunicazione sempre più basato sulla “bufala”. Il giornalista deve cercare di garantire, nel rispetto della verità, una informazione precisa e puntuale, diritto fondamentale per i cittadini.
Anche l’informazione televisiva, come si diceva all’inizio, ha avuto una impennata in termini quantitativi e una profonda variazione in termini qualitativi, nel parlare di immigrazione. Le reti generaliste, in particolare nella fascia prime time, hanno dedicato in 10 mesi 3437 servizi/notizie in materia, senza eccedere in allarmismo ma, soprattutto in occasione di alcuni eventi particolari, hanno calcato la mano su antichi temi quali il “degrado nelle città” (provocato dai profughi?) e il problema della destinazione degli aiuti raccontati spesso come “a scapito degli italiani in difficoltà”. Più notizie sui migranti ( il record da 11 anni anche se complessivamente gli arrivi sono diminuiti), calo delle notizie in merito alla “paura che tali presenze creano”. Il picco delle notizie che incutevano terrore era stato toccato nel 2007, c’è da temere un forte rigurgito in questi ultimi mesi.
La tv è stata elemento trainante per permettere agli esponenti politici di intervenire in materia. Un tema che è sì divisivo ma che permette anche una sovra rappresentazione di alcune forme estreme di approccio. In una sorta di classifica degli interventi, il Presidente del Consiglio Matteo Renzi è stato presente nel 55% dei servizi, il Ministro dell’Interno Angelino Alfano nel 19% ma fra loro, con il 27% delle presenze, il leader della Lega Nord, Matteo Salvini, in maniera assolutamente avulsa dal consenso di cui gode il suo partito ma in quanto rappresentante più efficace delle pulsioni allarmistiche, se non xenofobe presenti nel paese. Ovviamente scarsa, anche se aumentata, la voce dei protagonisti delle migrazioni (7%) e di coloro che se ne occupano in qualità di esperti, o di chi lavora in associazioni umanitarie, studiosi e esponenti delle forze dell’ordine (5)%.
Mancano ad oggi (e la tv potrebbe essere il veicolo più adeguato) programmi di approfondimento che affrontino le questioni in maniera diacronica, che raccontino l’evoluzione e i cambiamenti sopraggiunti in Italia e in Europa, in cui si dica, ad esempio, che oggi l’Italia non è più paese di immigrazione ma di transito e di emigrazione (oltre 100 mila gli italiani emigrati nel 2014), che le ragioni per cui si viene in Europa sono cambiate. Servizi non da 50 ” in cui si dicono poche parole ad effetto, si mostrano immagini, spesso di repertorio, e si fa parlare il politico di turno, ma ricostruzioni complete e complesse di cosa si sta muovendo nel mondo. È possibile, interessante, probabilmente creerebbe anche audience ma non si fa per pigrizia, ignoranza e volontà di non affrontare i problemi con una ipotesi di strategia.
Servizi di questo tipo sarebbero utili a non finire ancorati all’angoscia provocata dall’ultima notizia giunta, sia essa un naufragio o un reato presumibilmente commesso da cittadini non autoctoni.
È possibile, dunque, una informazione che sia all’altezza di una società pluralistica e ormai finalmente meticcia come la nostra? Certamente è necessaria. È il solo vero antidoto a forme pericolose di autoesclusione ed emarginazione, è il solo percorso tracciabile per uscire da una dimensione nazionale e ancorata ad un passato remoto e non riproducibile
Serve per questo anche un linguaggio che sia più autorevole e rispettoso della dignità delle persone. Passi avanti ne sono stati fatti: si usa meno la parola “clandestino” e più quella “profugo”, sta sparendo il termine “extracomunitario” e solo i giornali più orientati a destra utilizzano il termine “zingaro”. Ma il linguaggio in quanto tale, per quanto necessario, non è sufficiente. Ci vuole poco a prendere parole apparentemente neutre come “migrante” o “rifugiato”, associarli a episodi di devianza per tradurli di nuovo in strumenti di esclusione. Occorre un linguaggio, di parole e immagini, capace di parlare di persone, di volti, di storie individuali, di percorsi non ascrivibili ad un comportamento streotipizzato. Occorre superare il sottofondo coloniale per cui “l’altro” è comunque considerato come alieno dalle nostre dimensioni ed ha come alternative o l’uniformarsi o il lasciarsi escludere subendo un mai superato ordine gerarchico. Ma è un tema che, in un pianeta di risorse malripartite, dove in realtà è l’essere poveri che esclude, si pone come basilare per ogni futuro. E l’informazione è da sempre uno degli elementi determinanti per decidere se andare verso il conflitto perenne o una costruzione di convivenza paritaria.
Un’importante e possibile sfida per un mondo in continua trasformazione e i cui confini non sono, e non devono, essere tracciati.