di Francine Filié
Venerdì 24 maggio 2019 si è tenuto a Roma il 21° convegno nazionale dei Centri Interculturali, organizzato dalla Rete Scuolemigranti e altre associazioni presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università Roma Tre. Tema della giornata: le buone pratiche di cittadinanza attiva e le esperienze di impegno civile da parte di cittadini stranieri e migranti, che in un panorama fatto di intolleranza e risentimento, propongono un modello che va oltre il semplice assistenzialismo, progettando percorsi per l’inclusione sociale e la convivenza.
Nell’apertura dei lavori, il direttore del dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università Roma Tre, Massimiliano Fiorucci, e Renzo Razzano, presidente del Centro di Servizi per il Volontariato del Lazio, hanno portato l’attenzione sulle diverse forme che può assumere il razzismo (biologico, differenzialista, istituzionale) e sulla necessità, in un presente sempre più caratterizzato da una normalizzazione del linguaggio razzista, di superare il paradigma assistenzialista, che vede i migranti come soggetti passivi, o quello securitario, che vede le migrazioni come un pericolo per l’ordine pubblico e la sicurezza dello stato, per considerare migranti e stranieri come soggetti attivi, che partecipano alla creazione della comunità in cui vivono.
Francesco Remotti, antropologo e professore all’Università Torino, nel suo intervento intitolato “l’arte della convivenza”, ha proposto di rappresentare il mondo e la vita in termini di somiglianze e differenze piuttosto che di identità come presupposto per costruire la convivenza, riprendendo il suo ultimo libro Somiglianze (Roma-Bari, Laterza, 2019).
Alla base delle nostre rappresentazioni sociali c’è il concetto di identità, su cui Remotti lavora da molti anni (Contro l’identità, Roma-Bari, Laterza, 1996; L’ossessione identitaria, Roma-Bari, Laterza, 2010) e che ritiene antagonistico rispetto all’idea di convivenza. L’identità ha avuto molto successo nel corso della storia: si presenta come un concetto positivo, che conferisce forza e stabilità. Rispondendo alla domanda “chi siamo?” crea un’illusione di raggiunta compattezza, solidità, integrità, e si sostituisce ai progetti e agli sforzi che cercano di ottenere un po’ di coerenza e di continuità. L’identità dà l’impressione di una realtà già acquisita e impedisce di scorgere la molteplicità e l’insieme di somiglianze e di differenze che è in noi, e i rapporti di somiglianza/differenza che legano i noi agli altri. Da un lato trasforma illusoriamente i soggetti (i noi) in entità compatte e compiute e dall’altro trasforma la rete delle relazioni intersoggettive in uno spazio in cui si profila un unico tipo di relazione: la relazione che oppone noi agli altri. Così facendo, gli altri non sono più nostri “simili”, ma incarnano soltanto l’alterità, un concetto di per sé negativo: essendo ciò che si oppone all’identità, gli altri si configurano inevitabilmente come pericolo e il senso del loro esistere non è altro che un minaccioso rischio di alterazione alla nostra identità.
In questi termini è impossibile pensare ad una convivenza, anche se non necessariamente e non sempre l’identità si configura come un’identità armata e aggressiva. Se abbinata alla tolleranza, all’identità può essere tolto il suo carattere offensivo, e dall’indifferenza, il grado minimo della tolleranza, si può arrivare ad atteggiamenti che via via migliorano sempre più i rapporti tra “noi” e gli “altri, come una coesistenza pacifica. In assenza di tolleranza, invece, si arriverà inevitabilmente al respingimento fino all’estremo dell’annientamento. La tolleranza però è la “percezione di un fastidio”, una reazione a qualcosa che disturba. Diceva Goethe, “tollerare è come insultare”. Inoltre, stabilisce una gerarchia tra chi tollera e chi viene tollerato e può essere tolta in qualsiasi momento.
Pensare in termini di somiglianza e differenza invece vuol dire pensare di avere qualcosa in comune, riconoscere l’esistenza di legame tra noi e gli altri per ripensare la nostra società. Le differenze non vanno appiattite, ma possono essere valorizzate e la convivenza non deve condurre verso l’assimilazione o l’annullamento. Come esempio ci porta il racconto dell’antropologo Siegfried F. Nadel dedicato a Kutigi, un centro nella Nigeria settentrionale, dove per diversi secoli quattro gruppi di origini storiche, lingue, religioni diverse hanno dato luogo a un sistema in cui tutti i gruppi, convivevano usando delle tecniche come lo scambio economico di beni e servizi, la celebrazione di matrimoni esogamici e ponendo a disposizione di tutti le loro differenze religiose e le loro competenze rituali. In questa prospettiva, le differenze acquisiscono un valore nella società.
Remotti sottolinea l’importanza di tecniche e strumenti per realizzare la convivenza: come notato da altri autori, la convivenza riguarda un sapere, e come tale va esercitato. Cita Michel del l’Hopital, consigliere dei Re di Francia e personaggio politico influente, che già nel XVI secolo aveva notato che “ciò che è importante non è sapere quale sia la vera religione, ma sapere come gli uomini possano vivere insieme”, e più recentemente Carlos Gimenes Romero, che definisce la convivenza come “un’arte che occorre apprendere, qualcosa che va coltivato”.
“Rinunciare all’idea di identità, riconoscere le somiglianze, studiare le compatibilità e le incompatibilità; valorizzare le differenze; individuare gli ambiti di interazione e di coinvolgimento reciproco, progettare in comune per un’apertura al futuro, e ricorrendo se serve all’umorismo”, sono per Remotti i presupposti e le tecniche per una riuscita convivenza.
Il convegno è proseguito con alcuni racconti, spesso fatti in prima persona dai migranti volontari, delle loro esperienze di cittadinanza attiva. Quattro sessioni parallele sono state dedicate allo scambio culturale e di saperi, alla cura dei beni comuni e dell’ambiente, alla scuola e alle nuove generazioni e all’esplorazione della città. Nel gruppo per la scuola e le nuove generazioni sono stati raccontati esempi di inclusione e di impegno civile nel contesto scolastico.
Akpeje Labilè e Biam Combey Tevigan, le due volontarie di Maison de la Femme, hanno raccontato della loro esperienza di insegnamento della lingua francese in Togo alle revendeuses, le donne più povere e analfabete che vendono la loro merce al mercato di Lomè. Il loro primo corso nel 2003 è stato preceduto da un sondaggio tra le venditrici ambulanti per scegliere l’orario preferito, che è risultato tra le 12 – 14,30, le ore più calde, quando le acquirenti se ne vanno e chi vende cerca di dormire. La scuola CEVA (cellule di valorizzazione) funziona da 15 anni, senza interruzioni con due corsi all’anno: livello base alfabetizzate in lingua locale, l’ewe, e livello avanzato in francese.
L’insegnante Laura Sidoti ha raccontato l’esperienza “Genitori Peer Muzio” a Milano. Alla scuola primaria Muzio ha organizzato uno sportello di mutuo aiuto per i genitori, con la disponibilità dei genitori “senior”, da molti anni inseriti nel tessuto sociale e produttivo locale, che rappresentano una risorsa preziosa e possono fornire una prima rete di supporto a chi invece in Italia è arrivato da poco, aiutandoli nella fase di orientamento sociale e culturale e nella gestione della burocrazia quotidiana. Recentemente il programma è stato affiancato dalla nuova piattaforma online creata per condividere ed allargare ad altre scuole l’esperienza.
Ramona Medici e Mohamed di “Fare Integrazione” hanno raccontato l’esperienza di corsi di lingua italiana per stranieri tenute da stranieri che già parlano italiano, mentre sempre da Milano il progetto “Mamme a scuola” dal 2004 porta avanti corsi di italiano per mamme straniere con uno spazio bimbi per tenere i figli mentre le mamme fanno lezioni gestito da mamme straniere volontarie.
In tutti questi casi l’impegno volontario e la cittadinanza attiva degli stranieri sono serviti ad aiutare gli altri, rendendoli partecipi della costruzione della convivenza e della comunità, in cui la “diversità” non risulta un peso, ma diventa una risorsa.