Durante la fase 1 dell’emergenza Covid-19, il dibattito pubblico si è concentrato prevalentemente sul “controllo” dei cittadini stranieri senza documenti o cosiddetti “invisibili” che sarebbero potuti sfuggire alle maglie dei conteggi sui contagi (una delle ragioni per le quali è stata promossa la procedura di regolarizzazione, che poi, abbiamo visto, aver avuto scarsi risultati) e sulla presunta “immunità” dei migranti regolari al Covid. C’è stato chi ha parlato di migranti “immuni” perché vaccinati contro la tubercolosi, e chi, con tono complottista, avrebbe affermato che “il virus che attaccherebbe solo gli italiani”[1].
Tuttavia, in questa prima fase, i dati ufficiali diffusi sul numero di persone contagiate forniscono dettagli sulla nazionalità.
Nella seconda fase dell’emergenza sanitaria, a seguito della conferenza stampa dell’8 maggio 2020, tenuta congiuntamente dal Ministero dell’Interno e dall’Istituto Superiore di Sanità (Iss),[2] sono presentati per la prima volta dati sulla diffusione dell’epidemia Covid-19 tra la popolazione straniera in Italia, distinti anche per alcune nazionalità.
Fino al 22 aprile 2020, il 5,1% dei casi di Covid-19 notificati all’Iss, in cui era presente il dato sulla nazionalità afferiva genericamente a cittadini stranieri, per un totale di 6.395 casi. Dopo la conferenza stampa dell’8 maggio, vengono rese pubbliche le principali dieci collettività straniere per numero di casi di Covid-19 in Italia, classificate in base al livello dello Human Development Index (HDI) del loro paese di origine[3]: indice hdi “alto” (con soltanto la Romania sopra i cento casi di Covid-19 accertati, in prima posizione con 1.046 casi, coerentemente con il primo posto anche per numero di presenze residenti in Italia), “medio” (con più casi – nell’ordine – fra i cittadini di Perù, Albania, Ecuador, Marocco, Ucraina, Egitto, Moldova e Filippine) e “basso” (con in testa India, Bangladesh, Nigeria e Pakistan). Sono assenti i cittadini cinesi, che a dispetto dei dati statistici, sono stati il “bersaglio” privilegiato di atti di discriminazione e violenza razzista prima e durante la fase 1 dell’emergenza sanitaria.
Da questo momento in poi, cominciano a diffondersi informazioni sui tassi di contagio differenziati per nazionalità che vanno di pari passo con un trattamento diverso riservato ai cittadini stranieri.
Basti pensare all’iniziativa annunciata dalla Regione Campania, dove si richiede che vengano sottoposte, per la prima volta, a controlli mirati da parte delle Asl, le fasce della popolazione straniera al rientro al lavoro con la riapertura delle aziende: “Si parla delle migliaia di extracomunitari già presenti in Campania, e le verifiche sanitarie saranno svolte a tutela dell’intera popolazione”, precisa la Regione[4].
Eppure, l’Osservatorio Europeo sulla Sicurezza, realizzato da Demos e Fondazione Unipolis, a giugno, ha evidenziato come nel mese gennaio – quando ancora il Coronavirus non aveva messo in ginocchio il nostro Paese – l’immigrazione costituiva il problema prioritario solo per il 9% degli italiani. Le preoccupazioni degli italiani erano tutte incentrate su altri temi: economia, lavoro ma anche corruzione politica e criminalità. Meno di due anni fa, tra l’inverno del 2017 e la primavera del 2018 (eravamo in campagna elettorale, prima del voto politico del 2018), la paura nei confronti degli stranieri che sbarcano nel nostro Paese era al 41%: all’inizio della pandemia scende al 33%[5].[6]
A sostituire l’immigrazione nel ruolo di “nemico pubblico” numero uno c’è sicuramente il Coronavirus, la cui diffusione in Italia ha spostato il focus del dibattito politico su altro, tralasciando temporaneamente le discussioni sugli sbarchi, che comunque sono proseguiti, e sui tanto contestati decreti sicurezza. Ma è un cambiamento che dura poco.
Debutta la fase 3. Ora, con i dati alla mano, s’inizia parlare di “Covid d’importazione”. Il bollettino pubblicato dalla Regione Calabria, relativo ai contagiati Covid del 13 luglio, è il primo ad aprire la strada alle polemiche circa la “specifica” che differenzia nei dati l’improbabile esistenza di un Covid “nostrano” e un Covid “importato”[7]. Ciò è il riflesso di quanto successo ad Amantea (Cs) il giorno prima: un evento salito alla ribalta nazionale per la protesta popolare che ha tentato di bloccare l’arrivo di 13 persone di nazionalità pakistana, risultate positive ma asintomatiche al test, effettuato dopo lo sbarco a Roccella Jonica. Il bollettino, pubblicato anche sui social network, evidenzia un grosso asterisco che precisa che in Regione sono 26 i migranti contagiati. In barba alle polemiche sorte a riguardo, anche altre Regioni hanno tenuto a fare queste precisazioni.
La Regione Lazio, il 22 luglio, pubblica una nota evidenziando quei casi che definisce d’”importazione”, elencando le relative nazionalità (https://www.facebook.com/SaluteLazio/posts/286549112765192).
La Regione Basilicata, nel suo bollettino del 23 luglio (ma pare essere rimasta l’unica regione italiana a farlo ancora nel momento in cui scriviamo, a differenza delle altre che hanno modificato il modo di comunicare i dati senza “differenziarli”, ndr), indica il numero di cittadini stranieri con il virus provenienti dall’estero e non (https://www.regione.basilicata.it/giunta/files/docs/DOCUMENT_FILE_3067783.pdf).
Tali bollettini, con queste precisazioni, si pongono in direzione diametralmente opposta rispetto alle raccomandazioni delle organizzazioni internazionali in materia di raccolta e di protezione dei dati. Oltre a stigmatizzare particolari categorie di persone, la divulgazione di dati distribuiti su base nazionale o “etnica” costituisce, secondo alcuni, “molestia razziale” ai sensi dell’art. 2 co. 3 dlgs. 215/2003, secondo cui costituiscono discriminazione “quei comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi di razza o di origine etnica, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo”. Si tratta di informazione oltretutto inaccurata, in quanto presenta un quadro parziale e piena di pregiudizidella casistica, con chiaro intento di portare l’attenzione solo su un gruppo specifico. E se, da un lato, è vero che gli stati hanno l’obbligo esplicito di raccogliere dati disaggregati, in questo caso anche sul Covid, dall’altro, hanno anche l’obbligo di diffonderli in modo accurato e di utilizzarli nel rispetto degli altri diritti fondamentali.
Ma vediamo nello specifico cosa dicono le indicazioni internazionali a riguardo. Secondo le linee guida elaborate dal Consiglio d’Europa in materia di protezione dei dati personali durante la pandemia da Covid 19, “poiché vengono generati massicci numeri di database, sfruttando i vantaggi delle tecniche e delle tecnologie di elaborazione dei dati come i Big Data o l’Intelligenza Artificiale, tali dati dovrebbero essere elaborati in tali ambienti nel rispetto della dignità umana e della protezione dei dati. Le rispettive linee guida sviluppate dal Comitato della Convenzione 108 nel contesto dei Big Data e dell’Intelligenza Artificiale possono essere strumenti utili per gli sviluppatori e per i governi per modellare tali trattamenti in modo da salvaguardare da un uso improprio volontario o da conseguenze negative indesiderate, compresa la discriminazione di individui o gruppi di individui”[8].
L’Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, nella Guida sulla raccolta e disaggregazione dei dati “A Human rights Based Aprroach to data”[9], intima gli Stati membri che raccolgono dati, sia attraverso censimenti, sia attraverso indagini specialistiche sulla popolazione o registrazioni amministrative, a non “creare o rafforzare le discriminazioni, le distorsioni o gli stereotipi esistenti nei confronti dei gruppi di popolazione, anche negandone l’identità”. Le attività di raccolta dati non dovrebbero mai avere un impatto negativo sui diritti umani, favorendone l‘uso improprio. Ohchr evidenzia inoltre che: “Un aspetto che i raccoglitori di dati dovrebbero considerare è l’impatto della pubblicazione e della diffusione dei dati, in particolare dei dati raccolti per scopi diversi dalle statistiche ufficiali. La pubblicazione dei dati può rappresentare un rischio per coloro a cui i dati si riferiscono, così come per coloro che li hanno raccolti. Quando un’organizzazione pubblica dati già disponibili al pubblico dovrebbe essere consapevole degli impatti derivanti dall’aumento della visibilità o dell’accessibilità di tali informazioni”.[10]
Anche l’OMS, in collaborazione con l’International Federation of Red Cross e Red Crescent Societies e Unesco, ha pubblicato una guida per prevenire lo stigma sociale legato ai malati di Covid-19.[11] La guida diffida, in particolare le istituzioni, dall’uso di parole stigmatizzanti sottolineando in particolare che “le parole utilizzate possono consolidare stereotipi o ipotesi negative, rafforzare false associazioni tra la malattia e altri fattori, creare una paura diffusa o “disumanizzare” coloro che sono colpiti dalla malattia”. L’OMS pertanto raccomanda ai soggetti pubblici di non associare luoghi o gruppi nazionali alla malattia COVID 19, in particolare nelle espressioni utilizzate per fornire informazioni rispetto ai contagi[12].
E’ un pericoloso crescendo quello a cui si assiste, e contrariamente a quanto evidenziato nei sondaggi della fase 1 e 2, nella fase 3 è iniziata una caccia aperta all’untore straniero. Il fenomeno dell’immigrazione, con tutte le sue implicazioni, è tornato alla ribalta, messo in un grosso calderone mediatico, insieme agli sbarchi e alla paura da contagio “importato” con i barconi.
A nulla sono valse, in agosto, le dichiarazioni di Franco Locatelli, presidente del Consiglio superiore di sanità (Css) e membro del Comitato tecnico scientifico (Cts), secondo il quale, “a seconda delle Regioni, il 25-40% dei casi sono stati importati da concittadini tornati da viaggi o da stranieri residenti in Italia. Il contributo dei migranti, intesi come disperati che fuggono, è minimale, non oltre il 3-5% è positivo e una parte si infetta nei centri di accoglienza dove è più difficile mantenere le misure sanitarie adeguate”.
E a nulla è valsa la pubblicazione, quasi in contemporanea con le dichiarazioni di Locatelli, dell’”Indagine nazionale CoVid-19 nelle strutture del sistema di accoglienza per migranti”,[13] condotta dall’INMP – Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni Migranti e per il contrasto delle malattie della Povertà. I risultati dell’indagine, riferiti a 5.038 strutture di accoglienza (Cas, Siproimi, Cara, Msna) sulle 6.837 censite dal Ministero dell’Interno, con una copertura pari al 73,7%, riportano 239 casi di Covid, distribuiti in 68 strutture, in 8 regioni, soprattutto al Nord, 2 in media a provincia, mentre non riportano alcun caso negli insediamenti informali.
Ma i dati e le percentuali, come spesso accade, sono utilizzati e interpretati cavalcando le tendenze del dibattito pubblico del momento, e di conseguenza, manipolati facendo leva su debolezze e paure diffuse. Ed ecco che, all’inizio di settembre, un sondaggio Swg evidenzia come la paura per il rischio contagi proveniente da “immigrati infetti” è salita a 38 punti a fine agosto, rispetto allo zero di giugno[14].
L’articolo fa parte del Focus n.1 – Il virus è straniero. Cliccando sul link è possibile scaricare l’intero dossier.
[1] Si veda ad esempio, qui: https://www.nextquotidiano.it/stranieri-non-si-ammalano-di-coronavirus-fake-news/ e qui: https://www.bufale.net/extracomunitari-immuni-al-coronavirus-in-italia-per-il-vaccino-contro-la-tubercolosi-enormi-dubbi/.
[2] Si veda: “Covid-19, analisi dell’andamento epidemiologico e aggiornamento tecnico-scientifico”, http://www.salute.gov.it/portale/news/p3_2_7_0_1.jsp?lingua=italiano&menu=multimedia&p=video&id=2167.
[3] Si vedano le slide del direttore del Dipartimento di malattie infettive dell’Iss Gianni Rezza qui: http://www.quotidianosanita.it/allegati/allegato1000036.pdf.
[4] Si veda qui: http://www.askanews.it/cronaca/2020/05/02/coronavirus-in-campania-controlli-sanitari-su-extracomunitari-pn_20200502_00101
[5] Si veda: https://rep.repubblica.it/pwa/generale/2020/06/14/news/l_immigrato_non_ci_fa_piu_paura_adesso_gli_italiani_temono_la_crisi-259233221/?ref=RHPPTP-BH-I259240848-C12-P6-S5.4-T1
[6] Il rapporto è disponibile qui:
https://www.fondazioneunipolis.org/Documents/XII_Rapporto_Osservatorio_Europeo_sulla_Sicurezza.pdf
[7] Si veda qui lo screenshot del bollettino incriminato: https://www.today.it/attualita/coronavirus-bollettino-calabria.html
[8] Si veda https://www.coe.int/en/web/data-protection/statement-by-alessandra-pierucci-and-jean-philippe-walter, 30 marzo 2020. Si veda anche la raccomandazione degli esperti delle Nazioni Unite “COVID-19 fears should not be exploited to attack and exclude minorities”, disponibile qui: https://www.ohchr.org/EN/NewsEvents/Pages/DisplayNews.aspx?NewsID=25757&LangID=E
[9] Si veda: https://www.ohchr.org/Documents/Issues/HRIndicators/GuidanceNoteonApproachtoData.pdf
[10] Si veda a tale proposito anche la dichiarazione del 29 aprile 2020, “Leave No One Behind. Racial Discrimination and the Protection of Minorities in the COVID-19 Crisis”, https://www.ohchr.org/Documents/Issues/Minorities/UN_Network_Racial_Discrimination_Minorities_COVID.pd
[11] Si veda: http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_notizie_4149_0_file.pdf
[12] Come è stato fatto rilevare anche in un appello pubblicato dalla neonata Rete nazionale per il contrasto ai discorsi e ai fenomeni d’odio del 28 luglio, si veda qui: https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=130110102092174&id=103635131406338
[13] Si veda: https://www.inmp.it/pubblicazioni/Indagine_COVID-19_strutture_accoglienza.pdf, del 13 agosto 2020.
[14] Si veda qui. https://www.ladige.it/news/italia/2020/09/01/coronavirus-ora-cittadini-aumenta-paura-contagio.