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Cronache di ordinario razzismo

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Il tema del giorno: rinunciare a Schengen quanto “costa”?

4 Febbraio 2016

epa04505610 A view of Schengen's sign in the village of Schengen, Luxembourg, 14 October 2014. EPA/NICOLAS BOUVY

Cosa succederebbe se l’Europa abbandonasse Schengen? Da un punto di vista economico, quanto costerebbe all’Europa la chiusura delle frontiere interne? In questi giorni il tema appassiona i principali quotidiani italiani molti dei quali riprendono in modi diversi una nota redatta dagli esperti di France Stratégie. Secondo il think-tank creato nel 2013 dal governo francese, i paesi europei potrebbero subire una perdita di 110 miliardi nell’arco di dieci anni, l’equivalente dell’0,8% del Pil dell’area.

La stima non è stata realizzata per mero esercizio teorico: al contrario, si situa in un contesto in cui la disgregazione dello spazio Schengen sembra sempre più vicina. Lo fanno notare gli stessi ricercatori: a fronte degli attuali flussi migratori, sei paesi -Germania, Austria, Francia, Slovenia, Svezia e Danimarca- hanno di fatto già ripristinato i controlli alle frontiere. Intanto, la Commissione europea sta lavorando ad una procedura per consentire la sospensione degli accordi per due anni: sono stati gli stessi ministri dell’Interno dei paesi membri a chiederlo, in un meeting tenutosi lo scorso 26 gennaio a Amsterdam. Forse senza aver considerato a fondo l’impatto economico di una simile misura. La stima sviluppata dal think tank d’oltralpe si focalizza sulla Francia, per la quale è stimato un impatto negativo sul PIL tra 1 e 2 miliardi: per metà il calo sarebbe imputabile a una flessione del turismo, per il 38% agli effetti sul lavoro transfrontaliero, e per il rimanente 12% alle conseguenze sul trasporto merci. Questo sul breve termine. Se invece si considera un definitivo abbandono di Schengen, e l’impatto di questo sul medio-lungo termine, il contraccolpo sull’economia francese sarebbe più forte: circa 13 miliardi, pari allo 0,5% del Pil nazionale, con un calo delle esportazioni compreso tra 10,8 e l’11,4%, e delle importazioni tra l’11,4% e il 13,7%.

Allargando lo sguardo all’intera area Schengen la situazione non risulterebbe migliore, anzi: gli scambi commerciali all’interno dell’Unione subirebbero una diminuzione compresa tra il 10 e il 20% -pari all’introduzione di una tassa del 3% sugli scambi commerciali, come precisa lo studio – con la perdita prevista del 0,8% del Pil, quasi un punto percentuale del prodotto interno lordo dei paesi interessati. Una percentuale corrispondente a 28 miliardi per la Germania, 13 miliardi per l’Italia, 10 per la Spagna e 6 per l’Olanda. Per non parlare dei paesi maggiormente dipendenti dagli scambi interni: ad esempio la Slovacchia, la cui economia per il 70% dipende dai rapporti commerciali con gli altri paesi continentali.

Non occorre, comunque, fare troppi sforzi di immaginazione per capire che questa situazione potrebbe gravare pesantemente sull’economia dei paesi europei: come sottolinea lo studio, alcuni paesi stanno già sperimentando grandi difficoltà legate alla reintroduzione dei controlli.

Ai confini tra stati si moltiplicano le code di tir e automobili: attese che non ingolfano solo le strade europee, ma anche le casse, conseguenza diretta dell’aumento dei costi per i trasporti. La reintroduzione dei controlli alle frontiere, inoltre, sta già impattando negativamente sulla qualità di vita, e sulle tasche, dei lavoratori transfrontalieri. A questi aspetti vanno aggiunti i costi che i paesi dovrebbero sostenere per collocare alle frontiere gli addetti ai controlli.

Ma a destare preoccupazione circa un possibile abbandono di Schengen non sono “solo” gli aspetti economici. La reintroduzione delle frontiere avrebbe inevitabilmente ripercussioni sul ‘progetto europeo’: provocherebbe frizioni tra i paesi membri e avrebbe un’inevitabile ricaduta sulla libera circolazione di merci e persone – attualmente al secondo posto nell’elenco dei risultati positivi dell’Unione europea ritenuti rilevanti dall’opinione pubblica, secondo le rilevazioni di Eurobarometro. nda39_grap2_300dpi

L’eliminazione dell’accordo rappresenterebbe per l’Europa un pesante fallimento. Ma del resto come non vedere che il ‘progetto europeo’ è già arenato, su una questione che invece richiederebbe unità e condivisione?

L’aumento dei flussi migratori verso l’Europa ha esasperato le divisioni già presenti e ne ha create altre. Lontani da una cooperazione volta a dare una risposta coesa e omogenea di accoglienza – l’unica urgenza in un panorama internazionale devastato da conflitti, violenze e squilibri sempre più evidenti e inaccettabili -, i paesi membri hanno invece alzato muri e barriere, trovando un’unità d’intenti solo sulle politiche di esclusione e allontanamento, e sulle conseguenti misure, dalle espulsioni, ai respingimenti, alle detenzioni. Una scelta che aggrava la condizione tanto dei profughi, quanto dei cittadini europei, come mostrato dallo studio.

Viene dunque spontaneo chiedersi: se migranti, profughi, lavoratori e cittadini escono indeboliti da queste scelte politiche, chi invece ne trae vantaggio? E soprattutto: l’esigenza di proteggere le persone non dovrebbe costituire di per sé stessa una priorità?

Serena Chiodo

 

 

 

 

 

 

 

Filed Under: News Tagged With: eurobarometro, Europa, flussi migratori, pil nazionale, Schengen

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