Capita che si senta un dovere morale di scrivere qualcosa. Capita che di fronte a un fatto che ti piomba addosso, non nella sua realtà ma in quanto ha costruito nell’immaginario un Paese intero, ci si senta obbligati a dire da che parte si è. Quando ho letto che Doina Matei avrebbe potuto usufruire, dopo 9 anni di detenzione, di un regime di semilibertà, ho francamente gioito per lei e non solo.
L’avevo incontrata in carcere poco dopo la condanna. 16 anni per omicidio preterintenzionale aggravato dai futili motivi e dalla crudeltà del fatto, scrisse più o meno il giudice nella sentenza. Aveva ucciso un’altra ragazza, poco più che coetanea, in una lite, con un colpo di ombrello. Divenne in quei giorni il simbolo del male assoluto etnicizzato. Aveva ucciso una “italiana”, era anche scappata, era una prostituta, il mostro perfetto.
In carcere la direttrice mi parlò di lei come di una detenuta che aveva capito in pieno la gravità di quanto commesso e mi disse con insolita franchezza: «Per omicidio preterintenzionale (non volontario) 16 anni è il massimo della pena che si possa dare. Se non era romena non sarebbe accaduto».
E ricordo ancora bene quel suo sguardo triste, aveva due figli piccoli che chissà per quanto tempo non avrebbe mai più rivisto, aveva vissuto e subito la strada come la detenzione in quelli che allora si chiamavano CPT (Centri di permanenza temporanea) oggi Centri di Identificazione ed Espulsione. Mi parve di vedere una bambina e da uomo provai un profondo ribrezzo per chi aveva, allora comperato il suo corpo. Padri di famiglia, persone “perbene” con “qualche debolezza” che nei maschi è consentita e tollerata dalla nostra cultura non solo razzista (ragazzina straniera) ma patriarcale.
Oggi, a distanza di 9 anni vedo vomitare su di lei, soprattutto sui social network, un odio che mi spaventa. Lavora nei pressi del carcere e, pare durante un permesso premio, ha osato farsi fotografare al mare, sorridente, dopo 9 anni di galera e postare su fb le sue foto. Immediatamente la sua semilibertà (rientro notturno in carcere) è stata sospesa. In attesa che cessi il clamore mediatico a cui si sono prestati anche giornalisti illustri. Sui social si sono creati immediatamente due schieramenti.
Il primo, minoritario, parla del tribunale come di un soggetto delegato a definire non solo la pena ma le modalità con cui questa deve essere applicata, di Stato di diritto e di diritto ad almeno una delle due vittime della violenza urbana quotidiana a rifarsi una vita. A provarci almeno, per i suoi 2 bambini, nati quando era ancora minorenne, e per i suoi sogni morti su una metropolitana. Un sorriso che ha offeso qualcuno, troppi, che è stato percepito come impunità, come segnale di non ravvedimento, come dimostrazione di una colpa incancellabile.
Non ho più visto Doina ma la ricordo prostrata per quanto aveva commesso, quando la pena era già stata definita e non poteva più sperare nella pietà della giustizia. Ma il mondo in cui è uscita a respirare i suoi primi passi da donna che vuole rientrare nella società, è diventato più cattivo e vendicativo di allora. Non è soltanto il becerume reazionario di stampo antico che la vorrebbe morta e sepolta e non è solo il sottoproletariato che l’ha individuata come il mostro da eliminare, su cui concentrare la propria rabbia inespressa frutto di vite senza speranza in borgata. Si tratta anche di quel ceto medio impoverito che in questi anni ha perso i pochi privilegi di cui sembrava godere e oggi è ancora più incattivito col mondo intero. Un mondo che viene anche rappresentato bene dalla stampa mainstream con titoli ad effetto e che ha ritrovato una persona su cui scaricare le sue pulsioni peggiori.
Un mondo senza codici, regole, memoria e prospettiva, che si sta riappropriando di quei codici che tanto si condannano nei paesi considerati barbari, come quello della vendetta. La giustizia non esiste per costoro, vi si fa appello solo se imputati altrimenti, se si è dall’altra parte del banco, si invoca il rogo, la punizione divina. Si utilizza con ipocrisia come metro di giudizio, il dolore della famiglia di Vanessa, la ragazza uccisa con l’ombrello, come se la perdita definitiva di ogni traccia di speranza negli occhi di Doina, potesse restituire loro una figlia o interrompere un dolore a cui bisognerebbe accostarsi con rispetto e pudore. E ci si sente una piccola minoranza che prova a far valere leggi antiche e desuete, quelle per cui non è un titolo ad effetto di un giornale a poter influenzare il parere di un giudice. Doina è tornata in cella, dovrà imparare a sorridere di meno, forse a coltivare una piccola gioia come una parte segreta della propria vita, da non rivelare mai pubblicamente. A lei non deve essere permesso sorridere. Gli ipocriti e incattiviti convinti di una giustizia vendicativa, saranno soddisfatti, molti di loro potranno tornare poi nell’ombra ad andare a cercare sesso da comperare con ragazzine che potrebbero essere loro figlie. In tanti e tante potranno pensare che per un giorno giustizia è fatta, per poi cercare in maniera compulsiva un altro bersaglio, si badi bene che non sia un potente ma una vittima, un ultimo tra gli ultimi, che confermi un proprio ruolo, non di censo magari, ma di prestigio garantito, nella società “normale” ma soprattutto normata.
Che Doina resti dentro e che ci sia qualcuno sempre pronto ad attenderla al varco, perché una notizia sulla sua vita fa vendere copie, permette di rientrare in un approccio violento e morboso al mondo circostante. Sono in tanti a beneficiare di queste notizie che servono ad alimentare un odio che non può essere definito in altro modo che razzista. Quanti fatti di cronaca nera, premeditati, efferati, crudeli, sono finiti nel dimenticatoio perché il reo o la rea erano Italiani? Viviamo in una società incattivita e senza speranza temo, che sembra aver perso anche gli afflati di umanità, concentrati oggi unicamente nella sfera religiosa, un tempo e uno spazio altro, rispetto alla vita quotidiana. Ma non ci si deve rassegnare. Per chi scrive, il sorriso di Doina è una speranza. Una speranza per chi è morto di violenza urbana, una speranza per chi la subisce ogni giorno, una speranza per chi si vuole riscattare e avere un’altra chance dalla vita. Pochi forse sanno che in carcere Doina ha anche cominciato a scrivere racconti, a mettere nero su bianco, la propria storia e la propria condizione.
Ci vuole forza e coraggio per fare anche questo, per affrontare una propria scarnificazione estrema, come a dire “io questa sono”. Per questo, rischiando la totale impopolarità, non resta che sperare di poter tornare a vedere il sorriso di Doina e poi, finalmente, veder calare il silenzio su una vicenda che ancora porta dolore e su cui nessuno, anche se occupa cariche importanti nella politica come nell’informazione, dovrebbe avere il diritto di speculare.
Stefano Galieni
Per un approfondimento e per poter ricostruire meglio la storia, potete consultare il pezzo “L’uccisione di Vanessa Russo“, a pagina 59 del “Rapporto sul razzismo in Italia“, il primo libro bianco sul razzismo curato da Lunaria e pubblicato nel 2009.