Se l’episodio di Milano è stato definito “un gesto folle”, quello accaduto ad Ardea voi come lo definireste? Vediamo cosa è accaduto in questi ultimi giorni. Giovedì sera (il 9 luglio, ndr), nei pressi di Tor San Lorenzo – Ardea, vicino Roma, Beatrice Ion, 23enne giocatrice della nazionale italiana di basket paraolimpico, è vittima di un’aggressione fisica e verbale a sfondo razzista. La giovane, di origini romene, colpita dalla poliomielite quando aveva solo tre mesi, viene presa di mira da un uomo, uno sconosciuto, perché infastidito – pare – dal fatto che lei avesse un posto auto riservato ai disabili. È la stessa atleta 23enne a raccontare tutta la vicenda sui social, poi ripresa dal Corriere della Sera: si trovava in auto con la madre quando un uomo le ha minacciate di scendere. A difendere la 23enne, interviene il padre, colpito dall’aggressore con una testata allo zigomo, e traportato poi in ospedale. L’aggressore non è solo, ma gli altri sarebbero rimasti fermi a osservare tutta la dinamica dell’aggressione. Il tutto condito con minacce e insulti razzisti: “Handicappata, stranieri di m…”. Sono dovuti intervenire i carabinieri per calmare e allontanare l’uomo. “Vivo in Italia da 16 anni, ho la cittadinanza italiana e ho fatto qui tutte le scuole. Sto continuando gli studi all’Università, gioco a basket in carrozzina con la nazionale italiana e mi considero in tutto e per tutto italiana. Eppure sono stata aggredita”, scrive Beatrice su Facebook. “Mio papà – aggiunge – è in ospedale probabilmente con uno zigomo rotto perché a detta loro siamo stranieri del c…o che devono tornare al loro Paese. Tralascio le offese che mi sono presa perché sono disabile”. “E non mi dite che il razzismo in Italia non esiste – prosegue ancora il post -. L’ho vissuto oggi dopo 16 anni che vivo qui e fa molto male. A chi ci ha aggredito dico di vergognarsi, saremo anche stranieri ma abbiamo più dignità di loro e chi ha guardato tutto senza fare nulla si dovrebbe vergognare ancor di più”, conclude con rabbia. La campionessa ha raccontato l’accaduto anche attraverso una video intervista a Tv Sei, l’emittente locale di Giulianova. Ed è proprio da lì e da tutto il mondo della pallacanestro in carrozzina che sono arrivati per la famiglia di Beatrice i primi attestati di solidarietà. E ovviamente la notizia è su tutti i giornali. La condanna è palese. E fa ancora più rabbia per il doppio stigma razzista usato dall’aggressore.
Purtroppo stessa cosa non possiamo dire per quel che riguarda le sorti di un altro caso accaduto a Milano. Nella notte fra sabato e domenica, alle 2.20 circa, in via Gabriele D’Annunzio, tra i tavolini dei bar e ristoranti della movida, un venditore di rose bengalese di 55 anni viene spinto nel Naviglio, senza nessuna motivazione apparente e senza proferire parola, da due ragazzi di circa 25 anni (sulla base delle testimonianze dei passanti, ndr) che poi si allontanano frettolosamente facendo perdere le loro tracce. L’uomo viene aiutato da alcuni passanti a uscire dall’acqua. Fortunatamente, non riporta nessuna ferita e, ai poliziotti intervenuti, dichiara di non sapere perché è stato trattato in questo modo dai due giovani sconosciuti. Al momento, non ha ancora sporto denuncia. La notizia è relegata a due trafiletti nella cronaca. Nessuna solidarietà a colui che resta solo un “venditore di rose”.
Due fatti gravi. Due situazioni completamente diverse. Tuttavia, quello che ci possono insegnare è che non sempre il razzismo è “urlato”, anzi spesso è silente e passa ai fatti. Che sarebbe stato bello se alcuni dei testimoni dell’aggressione di Milano avessero avuto il coraggio di sostenere la vittima nello sporgere una denuncia. Che gli esiti delle aggressioni razziste spesso dipendono da chi circonda chi le subisce. Che il razzismo non è soltanto quello legato al colore della pelle, ma spesso si mescola sapientemente anche con altre forme di discriminazione. E che oltre ad esprimere tutta la nostra solidarietà a Beatrice per quanto accaduto, facciamo lo stesso per questo uomo bengalese “senza nome”.