Come prima tappa del suo viaggio apostolico, il Papa ha scelto Lampedusa.
Una scelta simbolica importante: l’isola è la prima terra toccata da molti di coloro che provano a raggiungere l’Europa via mare, spesso a costo della vita. É la terra che vede per prima gruppi di persone disperate, sfinite da viaggi inumani. E’ la terra su cui sorge il cimitero dei senza nome, dei migranti ritrovati senza vita. E’ la terra, come ha scritto la sindaca Giusi Nicolini all’Unione Europea, “con i suoi abitanti e con le forze preposte al soccorso e all’accoglienza, che dà dignità di esseri umane a queste persone”.
Tutti i media parlano della visita papale.
Anche Magdi Cristiano Allam interviene, dalle pagine de Il Giornale (l’articolo qui).
Non lo fa ricordando, ad esempio, le tante persone che hanno perso la vita attraversando il Mediterraneo, oppure le molte criticità che deve affrontare l’isola, spesso lasciata completamente sola. No: Allam richiama i problemi economici degli italiani, mette in fila alcuni dati (senza fonte) sull’impatto della crisi sulla vita delle persone, rigorosamente solo di quelle italiane .
Una strategia che Allam usa per dire che il Papa avrebbe dovuto visitare per primi gli italiani: quelli che consumano “il pasto frugale”, quelli che vivono nei “quartieri degradati”.
“Invece Papa Francesco ha scelto di recarsi a Lampedusa”, afferma Allam. Invece. Una contrapposizione su cui Allam fa leva, perché anche – se non soprattutto – nella sofferenza, alcuni vedono dei primati.
Se parlando dei cittadini italiani Allam fa uso di parole colme di pathos, per i migranti non ha lo stesso senso di umana pietà: del resto, Allam non definisce mai gli uomini e le donne che giungono a Lampedusa persone. Sono, per lui, solo ed esclusivamente clandestini: “sbarcano i clandestini più fortunati e muoiono in mare coloro che colano a picco”. E se c’è una cosa da chiarire, in questo panorama tragico, per Allam è esclusivamente la questione terminologica: “si tratta di clandestini”. Punto. E “il gesto del Papa è una esplicita [..] legittimazione della clandestinità”.
Sono clandestini, dice Allam. Sono persone, diciamo noi. Al massimo, prive di regolari documenti di ingresso, in molti casi potenziali richiedenti asilo. Una caratteristica che, a quanto pare, fa si che si possa parlare della loro morte con una leggerezza e un distacco incredibili, proprio i sentimenti contro i quali si è schierato il Papa.
La visita del Pontefice è il pretesto giusto per un tanto fugace quanto diretto attacco politico alla Presidente della Camera Laura Boldrini e alla Ministra dell’Integrazione Cécile Kyeng, che secondo Allam considerano “la legalizzazione della clandestinità come l’apice della civiltà”. L’attacco del giornalista prosegue, rivolto a Carta di Roma: il protocollo deontologico concernente richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti, creato su iniziativa dell’Unhcr insieme al Consiglio nazionale dell’ordine dei giornalisti e alla Federazione nazionale della stampa italiana, sarebbe piuttosto – anche questo – una “strategia per legittimare la clandestinità” e avrebbe come obiettivo “l’annullamento del concetto di nazione italiana, che ha una sua identità e una sua civiltà”. A prescindere dal fatto che Allam, come giornalista, dovrebbe seguire questo codice deontologico, ci stupisce il continuo pensiero, quasi ossessivo, che riserva al concetto di clandestinità e alla paura di perdere una supposta identità nazionale italiana.
Non crediamo che le identità non esistano. Crediamo però che non siano dei monoliti fermi, rigidi, immobili. Le identità, come le lingue, sono costruzioni umane che cambiano, sono permeabili alla storia, alle modifiche del contesto. Un processo che Allam sembra temere molto, così come sembra preoccuparsi della possibilità che i singoli possano determinare dove vivere, quello che lui chiama “ il diritto.. di un’umanità affrancata da qualsiasi radicamento territoriale..di risiedere in qualsiasi parte del mondo a seconda della sua autonoma e insindacabile decisione”. Allam sembra profondamente contrario a questa possibilità, perché poi “a noi italiani non spetterà che accogliere incondizionatamente tutti coloro che si presentano alle nostre frontiere aderendo all’ideologia dell’immigrazionismo secondo cui gli immigrati sono buoni a prescindere dalle conseguenze della loro presenza nel nostro vissuto e nella nostra quotidianità”. Lo ribadiamo: non esistono immigrati buoni, immigrati cattivi, italiani buoni o meno. Esistono persone. Tutto il resto sono stereotipi o ideologia. E quindi, ogni individuo deciderà dove vivere.
E’ singolare anche il passaggio in cui il giornalista mette sullo stesso piano sfruttatori e sfruttati: “I clandestini sono conniventi con gli infami sfruttatori delle condizioni di miseria e disperazione da cui fuggono, perché volontariamente pagano una cifra che si aggira sui 1.000 dollari per salire su un’imbarcazione fatiscente che consente loro di attraversare il Mediterraneo”.
Una “connivenza” che i “clandestini” pagano spesso molto cara, con la vita: segno che la disperazione o la ricerca di una vita migliore spinge queste persone a pagare molto per rischiare ancora di più. Ma questo pensiero non sfiora minimamente la tesi di Allam, il quale sottolinea “che la clandestinità è parte integrante del più colossale giro d’affari della criminalità organizzata”. Un giro d’affari, evidenziamo noi, di cui l’Italia si approfitta: tante persone prive di regolari documenti sono “invisibili”, e quindi facilmente ricattabili e sfruttabili nelle campagne, nei cantieri, nelle case.
Si deve sicuramente fare qualcosa contro lo sfruttamento dell’immigrazione irregolare: e quel qualcosa è cambiare la normativa, metterla in linea con il contesto attuale. L’ampliamento delle possibilità di giungere sul territorio italiano regolarmente per cercare lavoro o per richiedere asilo sarebbe il modo migliore per sottrarre le donne e gli uomini che attraversano il Mediterraneo a quel “giro di affari” che lucra sulle loro vite.
Ora per venire in Italia occorre essere in possesso, ancora prima di arrivare, di un contratto di lavoro, a condizioni ben lontane da quelle che l’attuale mercato del lavoro riesce ad assicurare. E non serve a nulla affermare che allora le persone non devono venire in Italia. Facendo un discorso puramente pragmatico, se sono disposte a spendere mille euro per viaggiare continueranno ad arrivare perché, per quanto in Italia si possa stare male, è evidente che in altre parti del mondo si sta peggio. Inoltre, le condizioni in cui viviamo – per quanto critiche – sono rese possibili dalle condizioni, spesso indegne, in cui si vive dall’altra parte del mondo (La recente strage di lavoratori del settore tessile avvenuta in Bangladesh, che ha coinvolto l’industria Benetton, ne è un facile esempio).
Un’ideologia di chiusura, del “noi contro loro”, della “cultura minacciata”, appare anacronistica, priva di fondamento e controproducente. Guardare con gli occhi aperti la realtà e adeguarsi anche da un punto di vista normativo potrebbe invece portare dei miglioramenti sociali ed economici. Ed eliminare anche dei costi, prima di tutto umani.