di Stefano Galieni (il testo originale è pubblicato sul sito dell’associazione Diritti e Frontiere – ADIF).
Oggi i naufragi con decine o centinaia di persone che perdono la vita in viaggi rischiosi sono divenuti quasi normali. Il Mediterraneo, dall’Egeo a Gibilterra, continua a divenire fossa comune, in nome di leggi assurde egoiste, inutili ed atroci, se ne parla sui media, ci si stracciano le vesti, ma poi ci si è assuefatti a tutto. Anche quando il numero delle bare è impressionante, anche quando riverso sulla spiaggia c’è il corpo di un bambino di tre anni colpevole solo di voler sfuggire alla guerra. Un attimo di emozione e poi si dimentica. Come si dimenticano e si rimuovono con agghiacciante normalità i destini a volte mortali, altri che lacerano corpo e mente, di chi finisce, nella “civile Europa” in centri di accoglienza, in “hot spot”, in zone di transito dove sono trattati in maniera disumana, in centri di detenzione per coloro che vanno ricacciati indietro. Oggi se ne parla molto. Secondo il terzo rapporto della Associazione Carta di Roma, dal titolo “Notizie di Confine“recentemente presentato, nei primi 10 mesi del 2015 i sei maggiori quotidiani esaminati hanno riservato all’immigrazione dal 70% al 180% in più di titoli e articoli rispetto all’anno precedente, mentre le tv generaliste hanno aumentato del 250% complessivamente i servizi sul tema. Si è parlato soprattutto di accoglienza (55%), flussi migratori (22%), terrorismo/rifugiati (6,9%), spesso in chiave allarmistica, raramente fornendo una informazione completa delle ragioni delle fughe da alcuni paesi, ma si è anche obbiettivamente raccontato del dolore delle stragi in mare, della fatica e dei rischi a cui ci si espone quando si è costretti a partire, della dimensione almeno continentale di questo grande fatto sociale. Ci sono stati anche momenti di indignazione (strage di aprile 2015) di dolore, (la già citata foto del piccolo Aylan sulla spiaggia di Bodrum), di sorpresa, quando si vedevano tedeschi e austriaci accogliere i profughi. Insomma l’immigrazione, quella dura e rischiosa di chi non ha più possibilità di restare a casa è divenuta, in maniera più complessa, argomento comune di discussione e di dibattito.
Ma è iniziato tutto nel 2015?
Ovviamente la risposta è no, ma la memoria non aiuta e scavare nel passato, nazionale e continentale è un esercizio scomodo di cui però c’è bisogno. C’è vasta letteratura in materia per chi volesse saperne di più e questo accenno natalizio non ha alcuna pretesa se non quella di ricordare 3 avvenimenti accaduti proprio durante le feste che ricorrono in questi giorni. Notizie che non trovarono spazio sui quotidiani mainstream, di cui non si parlò in tv che si provò anche a considerare false ma che purtroppo false non erano. Non era falso il naufragio della nave F174, carica di uomini pakistani, tamil, indiani. Affondò la notte di Natale per una imperizia del capitano e per la crudeltà con cui li spinse in mare per liberarsi del “carico”. Erano partiti, probabilmente da Alessandria D’Egitto, con una nave più grande, la Yohan, per trasportare le persone sulle coste siciliane si utilizzò un natante malmesso, dividendo in due gruppi i migranti. Ma il primo gruppo non arrivò mai a riva. Imbarcava acqua per una falla, tornò verso la Yohan per cercare soccorso ma il mare in tempesta provocò un urto che frantumò la F174 in 3 tronconi. Morirono in 283, a 15 miglia dalla salvezza, fra Portopalo e Capo Passero, lembo meridionale della Sicilia in provincia di Siracusa. Circa in 40 riuscirono a risalire sulla nave madre, con certezza un ferito venne rigettato in acqua dall’equipaggio. Venne definito un “naufragio fantasma”. A denunciarlo furono per primi Dino Frisullo, che riceveva costanti notizie dalla comunità pakistana a Roma dove figli, parenti, amici risultavano dispersi, Livio Quagliata dalle pagine del Manifesto, corrispondenti dalla Grecia e dal Regno Unito. Poi la vicenda venne seguita con passione da Giovanni Maria Bellu, allora a Repubblica e non a caso oggi Presidente di “Carta di Roma. Un naufragio assurdo, come lo sono stati tutti quelli che sono seguiti, ma che per mesi venne negato dalle autorità. Arrivarono le testimonianze dei superstiti, portati nel Peloponneso, rinchiusi e costretti al silenzio da un trafficante continuò il suo cinico lavoro favorito dal proibizionismo che miete vittime oggi come allora. E fu un pescatore, Salvatore Lupo a denunciare finalmente l’accaduto portando una prova, la carta d’identità di Ampalagan Ganeshu, un ragazzo rimasto in fondo al mare. La testimonianza del pescatore e le tante altre che si succedettero costrinsero ad aprire una inchiesta. Quel naufragio, che per molti era “di clandestini” c’era stato ed era possibile arrivare anche al relitto. Giovanni Maria Bellu trasse da questa storia un libro duro e appassionato I Fantasmi di Portopalo pubblicato da Mondadori e nel 2002 la Compagnia Il Teatro della Cooperativa, di Milano, con Renato Sarti e Bebo Storti, realizzò sulla vicenda uno spettacolo teatrale in cui tragico e grottesco si fondevano in maniera tale da inchiodare alla poltrona, La nave fantasma, che ancora viene rappresentato. Chi scrive ebbe occasione di essere invitato ad una prima “di movimento” al Centro Sociale Leoncavallo di Milano, di incontrare il volto segnato di Salvatore Lupo che raccontava con sdegno quanto fosse stata dura rompere il clima di paura che c’era attorno al naufragio. Di storie del genere ne erano già accadute ma se un pescatore recuperava resti umani in mare spesso era costretto a rigettarli in acqua. Se segnalava il ritrovamento sarebbe partita una inchiesta, il peschereccio con cui si guadagna da vivere sarebbe stato posto sotto sequestro, le famiglie dell’equipaggio si sarebbero trovate per lungo tempo senza sostentamento e allora, meglio lasciare in pace i morti, preoccupandosi però sempre, malgrado i rischi di salvare i vivi. Salvatore Lupo denunciò quello che vedeva e dopo di lui altri presero il coraggio, denunciando l’esistenza di quella fossa comune che da tempo si andava silenziosamente riempiendo. Nello spettacolo, in cui al dramma si alternano momenti di cruda comicità, uno dei protagonisti mostra all’altro le poche pagine dedicate dai giornali, mano mano che del naufragio si cominciava a dar conto mentre l’altro sostiene un enorme pila di giornali e di periodici dedicati, quasi per intero all’argomento futile del momento, quello comodo che serve a seppellire quello scomodo. Nel 2006, per il decennale, la Redazione di Melting Pot, realizzò uno speciale in cui furono tante le voci che provarono a raccontare brandelli di verità.
Da allora in poi di naufragi ne sono avvenuti a decine, forse a centinaia. Nei pressi di Lampedusa, al largo di Malta o della Libia, davanti ai porti egiziani e turchi, nell’Egeo e nell’Adriatico, a poche miglia dalla Sicilia o dalle coste tunisine. Ci vogliono poche miglia marine per vivere o per morire e quello che sta per iniziare è l’ultimo di un ventennio infernale a cui non ci si deve assuefare.
Morire di CIE
Ma nel frattempo mutiamo lo sguardo. 25 dicembre 1999. Nell’allora Centro di Permanenza Temporanea e Accoglienza (CPTA) uno dei luoghi di detenzione amministrativa voluti dalla legge Turco-Napolitano, che oggi si chiamano in maniera meno ipocrita CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione) viene trovato morto, alla mattina un cittadino tunisino, Mohamed Ben Said di 39 anni, rinchiuso per essere espulso illegittimamente. Aveva una moglie italiana, ma non gli avevano creduto, aveva un passato in carcere e problemi, forse, di tossicodipendenza, ma ricevette un farmaco che probabilmente gli è stato letale. I soccorsi sono arrivati quando era già morto, in maniera orrenda, urlando fra le sbarre e accasciandosi rigido. Per lui poco spazio e solo in alcuni giornali di sinistra, per lui una interrogazione parlamentare articolata a cui non venne mai data sufficiente risposta. Per lui le parole dure come una lama di Annamaria Rivera, antropologa e attivista antirazzista che fu fra le prime a rompere il muro di gomma. Ancora oggi c’è silenzio sulle cause della sua morte. Arresto cardiaco ma provocato da cosa? Fu il primo a morire in un CPTA, ma pochi giorni dopo, nella notte del 28 dicembre, presso una struttura simile, più piccola, a Trapani, il Serraino Vulpitta, ad un tentativo di fuga seguì un incendio. Tante le ricostruzioni di quella notte orrenda, fatto sta che Nasim, Nashreddine, Rabah, Jamel, Ramsi e Lofti, sei ragazzi tunisini, rimasero intrappolati in una cella. Mancavano le chiavi e non funzionavano gli idranti, per 3 la morte è stata quasi immediata, per altri due l’agonia è durata pochi giorni, l’ultimo ha lottato per 3 mesi. Il centro era parte di un vecchio ospizio definito dall’allora ministro dell’interno un “Hotel a 5 stelle”. Mi è capitato tante volte di ricordarlo, ad ogni anniversario. Ci entrai pochi giorni dopo il rogo, con Fulvio Vassallo Paleologo, il senatore Giovanni Russo Spena e la memoria storica dell’antirazzismo italiano, Dino Frisullo. Ci entrai e compresi appieno la banalità del male: il pavimento gonfio, le porte annerite, ma le pareti della stanza / cella già ridipinte e un odore acre di gommapiuma bruciata e di altro che mi è rimasto ancora nei polmoni. Ci fu un processo, il prefetto venne assolto, per i morti non pagò nessuno e solo nel 2012 ai due sopravvissuti venne garantito un risarcimento per i danni subiti. Chiamarla fatalità significa offendere i morti e i sopravvissuti e assolvere i responsabili, materiali e mandanti, ovvero coloro che hanno glorificato l’esistenza di simili strutture. Anche allora pochi trafiletti: erano già soltanto “clandestini” per la gran parte di coloro che decidevano i destini delle persone. Da allora tanti altri hanno perso la vita suicidandosi, tentando la fuga, o in circostanze ancora più oscure nei centri di detenzione italiani ed europei e tanti altri ancora hanno pagato la detenzione con una vita semplicemente distrutta, frantumata.
Se oggi naufragi e stragi impunite come queste non scuotono più le coscienze – all’epoca movimenti antirazzisti fecero sentire forte la loro voce – se oggi prevale il silenzio di fronte a politiche ancora più criminali, forse conoscere quel passato è il solo modo per provare a salvarci dal futuro.