Roma, mercoledì 17 giugno 2020. Allo Stadio Olimpico si gioca la finale della Coppa Italia di calcio tra Napoli e Juventus. Poco prima del fischio d’inizio, previsto per le ore 21.00, come di consueto in simili manifestazioni sportive, viene cantato l’Inno di Mameli. Per eseguirlo, in quest’occasione, è stato scelto Sergio Sylvestre, giovane cantante afroamericano salito alla ribalta in Italia per aver vinto la quindicesima edizione del noto talent show di Canale 5 “Amici di Maria de Filippi” e che vanta nel suo curriculum anche un sesto posto al Festival di Sanremo 2017.
Nell’atmosfera surreale di uno stadio (da quasi 80.000 posti) vuoto, Sylvestre inizia ad intonare l’inno italiano, ma ad un certo punto, a causa della troppa emozione e della tristezza provocatagli dalla visione dello stadio deserto (come dichiarato da lui stesso in seguito sui social) ha un’esitazione su alcune parole (“Le porgan la chioma”) riuscendo comunque prontamente a recuperare. Alla fine dell’esibizione, il cantante statunitense alza il pugno al cielo al grido di “No justice, no peace”, come gesto di solidarietà nei confronti del movimento Black Lives Matter.
Il piccolo errore durante la performance e la vicinanza espressa al movimento antirazzista americano che ha unito il mondo intero dopo l’uccisione di George Floyd a Minneapolis, hanno scatenato un’ondata di commenti razzisti sui social rivolti all’artista. Gli haters si sono scagliati contro Sylvestre, rivolgendogli ingiuriosi insulti razzisti e accusandolo di non aver “rispetto” per l’Italia.
Come se non bastasse, a fomentare l’ostilità nei confronti del ragazzo, ci hanno pensato anche alcuni esponenti politici. Daniela Santanchè (Fratelli d’Italia) ha parlato su Twitter di “razzismo al contrario”. Secondo la senatrice, Sylvestre sarebbe stato “scelto perché nero” e, naturalmente non sarebbe “razzismo, ma decenza”. Il leader della Lega Matteo Salvini invece ha riportato, sempre sullo stesso social, il video dell’esibizione scrivendo: “Sbaglia l’Inno e saluta col pugno chiuso! Ma dove l’hanno trovato? Povera Italia!”. Sergio Sylvestre ha risposto al politico leghista tramite un’intervista rilasciata al Corriere.it, invitandolo ad informarsi sul significato del suo gesto. “Con quel pugno e con la mia voce parlo anche per quelle persone che non possono più alzare la mano, che non hanno più voce. […] Dovrebbe cercare di capire cosa significa quel pugno o un movimento come Black Lives Matter. Ma in fondo non può, lui non può capire cosa vuol dire essere nero. Io però sono nato così. Quando è morto George Floyd ho visto che hanno fatto tutti i post, non so se anche lui lo abbia fatto”.
E il punto è proprio questo. Nelle scorse settimane abbiamo assistito a post, tweet e messaggi di solidarietà nei confronti della comunità afroamericana, vittima di un razzismo radicato in secoli di schiavitù e di ingiustizie.
Perché però continuiamo a girarci dall’altra parte se il razzismo ha luogo qui, in Italia? Minimizzando magari parole e frasi chiaramente discriminatorie? Bisogna arrivare al gesto violento perché si possa parlare di xenofobia? Decostruire il razzismo, ormai dilagante, via social è uno degli step fondamentali proprio per prevenire ed evitare attacchi fisici nei confronti delle minoranze ancora profondamente discriminate.
Denunciare (giustamente) episodi di discriminazione altrove non deve portarci a chiudere gli occhi dinanzi a quello che succede anche in Italia. Alla luce di quanto successo recentemente negli USA si è parlato di un “problema americano” perché “il razzismo in Italia non esiste”, però il caso di Sergio Sylvestre ci ha dimostrato (purtroppo ancora una volta) che non è così. Il cantante è stato accusato e attaccato non tanto per aver sbagliato, ma per essere nero e per essere straniero. Basti pensare che un simile errore durante l’esecuzione dell’Inno di Mameli era stato commesso nel 2012 dalla cantante lirica Katia Ricciarelli prima di una partita di rugby tra Italia e Nuova Zelanda. Eppure, lei non era stata attaccata.
Durante il lockdown provocato dalla drammatica crisi sanitaria Covid19 si pensava che dopo niente sarebbe stato uguale a prima.
Ma è davvero così? A quanto pare no. Continuiamo ad assistere ad episodi di xenofobia e alle discriminaioni di chi è “diverso”. Che poi: diverso da chi?