Già nel “Rapporto sul razzismo in Italia”, il nostro primo libro bianco pubblicato nel 2009, sottolineavamo che, fra le molteplici iniziative legislative dell’allora governo in carica che contribuivano a rendere ancora più fragile la condizione giuridica e sociale del cittadino straniero, vi era anche il famigerato “contributo sul permesso di soggiorno”.
La Cgil e l’Inca (Patronato della Cgil), di recente, hanno chiesto al TAR del Lazio l’annullamento del decreto sul contributo per il rilascio e il rinnovo del permesso di soggiorno. Il TAR ha ritenuto, a sua volta, necessario esaminare la compatibilità delle norme italiane con le disposizioni del diritto vigente dell’Unione.
E ieri, la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha bocciato tale contributo. L’Italia, infatti, richiede ai cittadini di paesi terzi, soggiornanti di lungo periodo, per il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno, una cifra che oscilla fra 80 e 200 euro (secondo il decreto legislativo n. 286/1998, testo unico sull’immigrazione, laddove gli importi sono stati precisati da un decreto del 31/12/2011): si tratta di un costo ritenuto dalla Corte “sproporzionato”, perché può creare un ostacolo all’esercizio dei diritti riconosciuti dalla direttiva sullo status di cittadini di paesi terzi. Il contributo chiesto ai migranti è infatti almeno otto volte più elevato rispetto a quanto richiesto per ottenere la carta d’identità (circa 10 euro).
La Corte di Giustizia ha richiamato una precedente sentenza che ha coinvolto i Paesi Bassi nel 2012, e ha ricordato che l’obiettivo principale della direttiva 2003/109 sullo status dei cittadini di paesi terzi soggiornanti di lungo periodo è “l’integrazione” dei cittadini stessi che si stabiliscono in uno Stato Ue. La Corte ha riconosciuto che gli Stati possono, certo, subordinare il rilascio del permesso di soggiorno al pagamento di un contributo, con un margine discrezionale, ma ha precisato che “tale potere discrezionale non è illimitato, non può compromettere la realizzazione degli obiettivi perseguiti dalla direttiva e deve rispettare il principio di proporzionalità; i contributi non devono creare un ostacolo al conseguimento dello status di soggiornante di lungo periodo”.
A questo ha aggiunto che “l’incidenza economica del contributo italiano, può essere considerevole a maggior ragione per il fatto che, in considerazione della durata dei permessi e il loro rinnovo deve essere pagato assai di frequente”.
La Corte ha sottolineato, inoltre, che la metà del gettito prodotto dalla riscossione del contributo è destinata a finanziare le spese connesse al rimpatrio dei cittadini dei paesi terzi in posizione “irregolare”, respingendo quindi l’argomento del governo italiano secondo cui il contributo è “connesso all’attività istruttoria necessaria alla verifica del possesso dei requisiti previsti per l’acquisizione del titolo di soggiorno”.
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