Anche Annamaria Rivera interviene nell’infuocato dibattito che sta animando la carta stampata e il web sull’affaire del burkini. Lo fa dalle colonne del blog di MicroMega. L’antropologa sostiene che, al pari del “velo”, anche il “burkini” è una sorta di “oggetto feticistico costruito dal discorso egemonico”. Inoltre, sottolinea come un processo di feticizzazione di un capo di vestiario, e la conseguente stigmatizzazione di chi li indossa, rimandi a un “rapporto fra maggioranza e minoranze”, che ha a che fare, a sua volta, con un passato coloniale e con l’incremento di un razzismo anti-musulmano. Qui di seguito il testo.
Il “burkini” come il “velo”: proiezione feticistica di un passato coloniale che non passa
Per chi, com’è nel mio caso, si sia occupata sistematicamente dei ricorrenti “affaire del velo” francesi, anche le ordinanze comunali che vietano il “burkini” e il relativo battage politico e mediatico appaiono come un caso d’isteria politica, per riprendere la formula proposta nel 2004 da Emmanuel Terray. L’antropologo precisava che con tale formula intendeva denotare il comportamento proprio di una comunità che, sentendosi minacciata, impotente, ferita nel proprio narcisismo, fugge “dalla situazione reale che la mette alla prova, costruendosene un’immagine deformata e fantasmatica” e dandosi un falso bersaglio.
Com’è ben noto, la campagna contro il “velo islamico”, inaugurata nel 1989, sfociò infine nella controversa legge francese del 2004, che proibisce nella scuola pubblica i segni religiosi detti ostentatori: nella realtà effettiva, il solo hijâb. Oggi, invece e per fortuna, a contrastare l’isteria politica sono intervenuti il parere del Consiglio di Stato, la più alta giurisdizione amministrativa francese, che ha giudicato le ordinanze comunali vietanti il “burkini” come un attentato alle libertà fondamentali, grave e manifestamente illegale; e, subito dopo, il commento dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, per il quale la parità di genere non si consegue regolamentando dall’alto ciò che le donne devono indossare. Come nel caso del “velo”, anche il “burkini” (inventato undici anni fa da una stilista e pensato non solo per le musulmane) è stato totalmente privato della sua polisemia e svincolato dalle donne in carne e ossa che lo indossano: di solito evocate sotto l’astratto e generalizzante “la donna musulmana”, in realtà private di voce e soggettività, per essere ridotte a oggetto parlato, gridato, legiferato, mediatizzato, quando non diffamato e aggredito. Espropriate, quindi, delle loro ragioni e motivazioni: variabili e molteplici, non tutte riconducibili a un atto d’imperio maschile; in non pochi casi, invece, attinenti a una libera scelta, perfino di tipo modaiolo.
Non c’è bisogno d’essere specialisti/e di antropologia per sapere che il senso del pudore, la decenza, i costumi vestimentari sono mutevoli secondo le epoche, le società, le culture, le classi sociali, le minoranze, gli individui. Basta ricordare che fino agli inizi del XX secolo coprirsi interamente con degli abiti era considerato costume proprio dei civilizzati, in particolare dei borghesi, mentre la nudità era reputata segno distintivo dei “selvaggi”. Dunque, assolutizzare e imporre come eterna e universale la “nostra” attuale tenuta da spiaggia femminile più comune è non solo illiberale, ma anche antistorico. Ritenere che la libertà femminile si misuri dai centimetri di corpo esposti allo sguardo altrui è far torto alla dignità delle donne. Per non dire che, come c’insegna Roland Barthes, il valore estetico-erotico insito nell’abbigliarsi risiede proprio nel gioco del nascondere alcune parti del corpo: ampie o esigue che siano.
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