Con la sentenza n° 33179 depositata il 31 luglio, la Corte Suprema ha respinto il ricorso del coordinatore di un sito internet che inneggiava alla supposta superiorità della “razza bianca”.
L’imputato chiedeva di essere assolto in nome della libertà di pensiero, e negava la giurisdizione del giudice italiano perché il sito-madre era stato costituito negli Stati Uniti e operava su un server estero.
Il ricorso è stato rigettato: la Cassazione ha specificato che il giudice italiano è competente a esprimersi sulla diffamazione aggravata dall’odio razziale anche nel caso in cui il sito web sia stato registrato all’estero, se il contenuto del sito viene fruito da persone che si trovano in Italia.
Inoltre, la Corte Suprema ha ricordato che la tutela costituzionale a garanzia della libera manifestazione del pensiero e di associazione cessa quando questa libertà “travalica in istigazione ed incitamento alla discriminazione e alla violenza di tipo razzista”.
Infine, per la Corte di Cassazione le pene per i reati associativi, previsti dalla legge 654/1975 in linea con la Convenzione di New York (modificata dalla legge 205/1993), sono estendibili anche alle comunità virtuali di qualsiasi genere, dalle chat ai blog passando per i social network, i cui “requisiti di stabilità e di organizzazione” rendono la comunità virtuale idonea a configurare l’associazione per delinquere, “non potendosi per tali strutture ricercare quella fisicità di contatti tra i partecipi, tipica dell’associazione a delinquere di tipo, per così dire, classico”.
La Corte ha inoltre sottolineato le finalità del sito internet, nato e portato avanti con l’obiettivo di fare proseliti, istigare a compiere azioni dimostrative nel territorio italiano e pubblicare commenti su persone o avvenimenti: una propaganda razzista “tanto più efficace quanto più si affida alle nuove tecnologie di comunicazione, quali i social network o i siti web”.