In un editoriale sul “Manifesto” del 1 aprile, dal titolo “Parrucconi e disfattisti”, Norma Rangeri nota preoccupata la tendenza del “coro della grande stampa” a ridurre a disfattismo ogni voce dissonante. Non ci si perita della genealogia dell’epiteto, amato in epoca fascista anche per la sua discendenza dalle strilla dei più servili sergenti. Un altro epiteto che in questi giorni si fa largo – tradendo anch’esso un pedigree rivelativo – è quello di “scomposto”. Lo registra Rangeri nel medesimo editoriale, da un sottotitolo nell’edizione online di Repubblica del 29 marzo: “così Renzi tenta di mettere ordine alle scomposte posizioni del suo partito”. Ma si tratta, come spesso accade, di un modo spiccio e un po’ disonesto di screditare posizioni altrui, che sta prendendo piede. Disonesto perché infalsificabile: chi giudica del superamento della soglia di scompostezza? quali i criteri? etc. La Repubblica lo arraffa, come spesso fa, dal linguaggio del giornalismo più andante e pettegolo, e ad esso lo restituisce dopo averlo blasonato con una patina mainstream e il richiamo a un perbenismo degno di altri adepti, lo stesso che negli ultimi anni ha contribuito alla messa in circolo di alcune parole di plastica pigliatutto: decoro, degrado, etc.
La compostezza è decorosa, lo scomposto trasgredisce a una regola del galateo e contribuisce al degrado dell’ambiente. Si costruisce così un confine tra chi è composto e decoroso, e chi non lo è, magari perché reagisce a un’impertinenza, un’aggressione, un abbandono della logica o delle regole scritte del vivere civile; ma non lo fa con la dovuta compostezza patrocinata da chi sta dalla parte del sopruso.
E così si moltiplicano le recriminazioni contro l’altrui intolleranza alle libere opinioni, da parte di chi calpesta non le opinioni soltanto, ma i diritti e le argomentazioni. Non si riesce a tollerare alcun dissenso rispetto al quadro semplificato del reale che ci si è costruiti: la dissonanza costringerebbe a riesaminare tale quadro, che, poggiando su basi cognitive culturali e civili piuttosto insicure, non può permettere tali verifiche. E l’insicurezza porta a reazioni violente, fino alla negazione dell’umanità altrui. La necessità di bloccare il proprio processo cognitivo in una fermezza mortuaria spinge a dare dello “scomposto” a chi vien temuto come portatore di dissonanza. Ma la compostezza che così si mette in scena è quella della morte del pensiero. E il modello di tanta compostezza è, su questo argomento, la battuta sul “manipolo di scienziati del diritto” di Matteo Renzi, forse ignaro (ma forse tutt’altro) dei precedenti di simili espressioni.
La circolarità dell’uso di tali epiteti ne favorisce la moltiplicazione delle occorrenze, e ritroviamo scomposto in contesti in cui la vicinanza funzionale ad altri lapsus sintomatici lo restituisce alla volgarità profonda che ne connota l’uso. Una di tali occorrenze, del medesimo 1 aprile, sembra particolarmente significativa a chi da anni lavora sul linguaggio razzista. La si trova sul quotidiano online indipendente “Lettera 43”, nell’articolo “Zagrebelsky, profilo del professore che critica Renzi”, a firma di Giancarlo Perna. Tutti i giudizi espressi dal Perna ruotano intorno al frame “scompostezza”: “tono da quaresimalista che vede tutto nero”, “bollata”, “non gli vanno giù” “reazionario critico”, “nulla gli sta bene”, “stramaledetti vizi” (che Zagrebelsky attribuirebbe al Paese, con la P maiuscola, chissà si offendesse) “diventa una iena”, “detesta il mondo in cui vive”, “gli si storcono le budella” , “situazione psicologica drammatica che lo condanna al broncio permanente”. Delle 100 parole che costituiscono l’esordio, queste 47 parole sono sorrette da altre 48 che ne permettono l’inserimento in un “discorso” (si fa per dire), che consiste quasi solo nelle indicazioni del bersaglio di tali giudizi, e chiuse da cinque che costituiscono la prova di tale scompostezza: il “broncio” è, infatti, “facilmente verificabile nelle sue foto”. Un passo avanti (o forse no) rispetto a chi istigava all’odio con vignette turpi.
Tutto l’articolo è da leggere, per rendersi conto della volgarità cui si affida certa “stampa libera”. Il ribrezzo del Perna si riversa sul “gruppo elitario di sinistra borghese che si ispira all’autorità dell’azionismo torinese”. Ce n’è, esplicitamente, per Bobbio e Galante Garrone, chiamati per nome e cognome; ma si precisa che tale tempio torinese “accoglie anche calabresi tipo Stefano Rodotà e intellettuali di altre etnie.” Chissà a che tribù pensa di non appartenere chi scrive così. E fortuna che probabilmente gli sfugge che Rodotà, fatto segno lo stesso giorno di analogo (perchè svolto all’insegna della compostezza contro chi urla e sfida), ancorché meno convulso, attacco dallo stesso quotidiano “indipendente” (l’articolo qui), non sia solo calabrese, ma anche arbaresh: un altro ibrido scomposto.
Rappresentati come settari che si muovono “all’unisono”, i soci di “Libertà e Giustizia” mostrano un “atteggiamento schizoide: rigetto della degenerazione attuale ma reazione scomposta per ogni tentativo di uscirne. Ossia, di modernizzare.” Manca la dimostrazione di quell’ogni, come dell’equivalenza tra “tentativo di uscirne” e “modernizzazione”, una patente rilasciata in bianco. E manca, naturalmente l’indice del giudizio di scompostezza. Ma tant’è.
Dopo un corpo dell’articolo, in cui la chiacchiera e il pettegolezzo generalizzanti prevalgono su qualsiasi informazione, l’aculeo finale è devoluto alla totale deumanizazzione del bersaglio: forse Perna non sa che in tali processi di deumanizzazione si rivela la disumanità di chi si esprime. E, al di là delle responsabilità di Perna, tanta disumanità è il segno di un imbarbarimento preoccupante.
“QUEL SANGUE RUSSO”. Certi eccessi di Gustavo e i malumori che spesso si trasformano in scatti iracondi, sono da attribuire – per sua stessa ammissione – al sangue russo che molto lo inorgoglisce.” Il richiamo al sangue, che molti di noi fanno con autoironia, diventa nella bocca di chi lo usa per attribuire indoli e caratteri (peraltro così perversi come quelli qui rappresentati) volgarità insoffribile. In particolare, negli ultimi due decenni sulle nefandezze della “razza slava” si sono esercitati istigatori e mestieranti. Sappiamo che chi è capace di scrivere tali orrori non lo fa per il suo sangue, ma per guasti culturali che non ricadono solo su di lui, ma cui siamo tutti esposti: in misura, in questo caso, particolarmente abietta, se si conclude ricordando che la madre di Zagrebelsky è valdese, per cui: “Da questo ibrido è venuto Gustavo: sempre severo come mamma, a volte mercante di fumo come papà”. Basta la (da lui presunta) compostezza del Perna, perché il giudizio sul sangue lo esenti dall’obbligo dell’argomentazione civile?