É stato detto tante volte: i Centri di Identificazione ed Espulsione sono inumani, oltre che inefficaci, e vanno chiusi. Lo spiegano i dossier (ad esempio Costi Disumani), lo ripetono le associazioni, lo conferma la campagna LasciateCIEntrare.
Ora, per la prima volta, a mettere in dubbio queste strutture detentive è un giudice. E lo fa basandosi sulle legge, o meglio sulla Costituzione.
Nel corso dell’udienza di convalida del trattenimento nel CIE di Ponte Galeria (RM) di una cittadina cinese fermata a Messina, il giudice di pace ha sospeso il processo, per capire se la validità del provvedimento di reclusione era da riferirsi all’ordine emesso dalla questura di Messina o a quello successivo di Roma.
Trasmettendo gli atti alla Consulta, il magistrato ha sollevato “il dubbio sull’incostituzionalità del trattenimento degli stranieri nei centri di identificazione ed espulsione, in rapporto al diritto di libertà personale e al principio di eguaglianza e non discriminazione nel godimento dei diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione (art. 3, art.10, art.13 Cost.)”.
La pratica della detenzione amministrativa si scontrerebbe quindi con tre articoli della Costituzione.
Ma c’è dell’altro. Attualmente, le udienze si tengono in locali messi a disposizione all’interno dei CIE, “o presso le Questure, oppure presso gli Aeroporti”, come si legge nell’ordinanza trasmessa dal magistrato alla Consulta. Una scelta a discrezione del potere esecutivo, che potrebbe compromettere l’attività del giudice: infatti, quando le udienze si svolgono all’interno dei CIE, il giudice “non può esaminare gli atti se non velocemente, ed altrettanto velocemente decidere sulla libertà personale dei cittadini di paesi terzi”. Questo configurerebbe “una evidente lesione del diritto di difesa di cui all’art.24 della Costituzione, il cui esercizio è riconosciuto anche allo straniero irregolarmente soggiornante in Italia, e del dovere di imparzialità e di parità davanti ad un giudice terzo (art.111 della Costituzione)”.
Infine, nell’ordinanza la reclusione nei CIE viene descritta come un “atto coercitivo con il quale le forze di polizia attuano o ripristinano un provvedimento di trattenimento”. In altri termini, una misura che incide sulla libertà personale. E che per questo deve essere disciplinata dalla legge attraverso il Parlamento, come sancisce la Costituzione. Cosa che, però, non avviene: esistono infatti solo decreti e regolamenti emanati dal ministero dell’Interno. “La gestione dei Centri è disciplinata da un capitolato di appalto, approvato con decreto ministeriale del 21 novembre 2008 e non da una legge”, scrive il giudice nell’ordinanza.
Sono tante le questioni che il giudice del tribunale di Roma ha portato davanti alla Corte Costituzionale: questioni importanti, tanto più che per la legge italiana sono i giudici di pace a decidere sulla libertà dei cittadini stranieri, dovendo pronunciarsi sulla prima convalida del trattenimento della persona e sulle successive proroghe, rinnovabili fino a 18 mesi.
Appare dunque ancora più rilevante la presa di posizione del magistrato che, ricordando i rapporti del Viminale sui CIE, dove si descrivono le pessime condizioni di vita dei trattenuti, ha sottolineato che “di fronte ai diritti fondamentali di libertà posti in gioco, non può non assumere preminenza l’esigenza di assicurare tutte le garanzie ordinamentali e processuali a soggetti che, per la loro intrinseca condizione personale, costituiscono a tutti gli effetti soggetti deboli”.
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