Pubblichiamo qui, di seguito, l’articolo di Luigi Manconi e Valentina Brinis pubblicato su il Manifesto del 14 ottobre 2015, nel quale si sollecita, ancora una volta, la chiusura dei CIE.
di L. Manconi e V. Brinis
I Centri di identificazione e di espulsione per stranieri irregolari (Cie) sono nonluoghi precipitati nello spazio ottusamente vuoto di un nontempo. Forse le sedi più crudeli di privazione della libertà presenti nel nostro Paese: ed è proprio per questa ragione che intorno alla loro natura e alle loro finalità, alle norme che li regolamentano e alle iniquità che vi si consumano, si gioca una partita dura, molto dura, dall’esito incerto, condotta su molti piani.
Uno di questi, tutt’altro che secondario, è quello giudiziario. E da qui proviene, finalmente una buona notizia. Qualche giorno fa, la Cassazione, con sentenza 18748/15, ha annullato il provvedimento di trattenimento nel Cie di Ponte Galeria, all’estrema periferia di Roma. Provvedimento a carico di un cittadino libico di etnia tuareg impugnato dall’avvocato Alessandro Ferrara, collaboratore dell’Associazione A Buon Diritto. Il periodo di permanenza all’interno di quel centro era stato più volte prorogato, nonostante la stessa autorità libica in Italia si fosse da subito opposta al rimpatrio, perché avrebbe esposto lo stesso trattenuto «a un grave rischio per la propria vita e incolumità». Quelle stesse autorità avevano constatato, inoltre, che l’impossibilità del rimpatrio costituiva «una situazione permanente» e non transitoria, che dunque faceva venir meno anche la necessità del trattenimento. Si tratta di una sentenza molto importante che conferma la totale inadeguatezza di una misura come l’ingresso nel Cie per persone che, sin dal principio, si rivelano inespellibili. Ne sono un esempio tutti coloro che vengono trattenuti più volte, anche sei o sette, senza che le autorità siano in grado di procedere al rimpatrio per mancanza di indicazioni attendibili sulla loro nazionalità. Basti pensare ai rom provenienti dalla Bosnia o dalla Serbia che non vengono riconosciuti come cittadini di quei paesi a causa di profondi cambiamenti geopolitici avvenuti nel corso degli anni ’90. La condizione di irregolarità, difficile da sanare, li condanna a ripetuti trattenimenti che si concludono sempre in un nulla di fatto.
Eppure basterebbe che anche solo una delle figure professionali con cui vengono in contatto — assistenti sociali, avvocati, giudici di pace, funzionari della Questura — fornisse loro qualche informazione su come accedere al riconoscimento dello status di apolide. Tuttavia, c’è da dire che, anche se quell’informazione fosse più accessibile, rimarrebbe faticoso completare la procedura, il cui esito si determina in sede giudiziaria più che amministrativa.
Ma il caso dei rom è solo uno tra i molti possibili. In generale, il mancato riconoscimento da parte delle autorità consolari, non sempre coincide con il rilascio della persona trattenuta, come insegna la vicenda qui ricordata.
E tutto ciò dimostra come, a proposito dei centri di identificazione e di espulsione, ci sia ancora molto da fare. Uno spiraglio si era aperto con la riduzione dei tempi di trattenimento da diciotto a tre mesi; con l’emanazione del regolamento nazionale; e, infine, con il recepimento della direttiva europea sull’accoglienza. Si è trattato di tre importanti occasioni che, però, non hanno migliorato le condizioni di vivibilità all’interno di quei luoghi. Addirittura si può dire che, con l’ultimo provvedimento, quelle condizioni sono destinate a peggiorarle. E ciò perché sono state introdotte specifiche indicazioni sulla reclusione di una particolare tipologia profughi, all’interno dei Cie per un periodo fino a dodici mesi.
Insomma, appare sempre più evidente che il trattenimento venga utilizzato come strumento punitivo nei confronti di chi non abbia i documenti in regola; e che poco si faccia per promuovere misure alternative al trattenimento e altre forme di rimpatrio. I costi umani ed economici che la permanenza nei Cie comporta sono ormai troppo alti se confrontati con il numero di rimpatri effettivamente realizzati. Ancora oggi, appena il 50% dei trattenuti viene riportato nel paese di origine. Un mezzo fallimento proprio rispetto allo scopo per il quale quei luoghi orribili sono stati creati.