Pubblichiamo qui di seguito la storia di Omar, della sua malattia e della sua detenzione, prima nel carcere, e poi nel centro di identificazione ed espulsione per immigrati “irregolari” di Ponte Galeria a Roma, raccolta da Alberto Barbieri, coordinatore generale di Medici per i Diritti Umani.
I CIE, la salute e la dignità umana: la storia di Omar
Ci sono forme di privazione della libertà personale in ogni Stato, che, sotto un’apparenza di necessità, si rivelano ingranaggi incomprensibili ed iniqui. La cui supposta utilità non regge al vaglio della ragionevolezza e del buonsenso. La cui natura si scontra palesemente con i principi fondanti di una stessa collettività. Uno Stato di diritto, una cultura democratica dovrebbero avere le risorse per emendare tali misure, tanto più quando queste minano il loro bene più prezioso: i diritti fondamentali della persona. La tutela della salute è senz’altro uno di questi diritti ed i centri di detenzione per gli immigrati – i centri di identificazione ed espulsione altrimenti noti come CIE- sembrano essere uno degli iniqui ingranaggi di quest’epoca di veloci trasformazioni e di grandi migrazioni.
Ho conosciuto Omar in un corridoio di un ospedale romano. Omar ha poco più di trent’anni , viene dall’Africa occidentale ma da diversi anni si trova nel nostro Paese. Racconta la sua storia in un buon italiano, i suoi modi sono pacati e riflessivi, non usa mai termini drammatici, non va mai sopra le righe, non esprime rabbia nonostante sia consapevole della malattia. La vicenda di Omar non è eccezionale ma, si potrebbe dire, rientra nella drammatica quotidianità di tante altre storie di immigrati che, come lui, hanno vissuto la reclusione all’interno di un CIE (in quelle strutture cioè, che dal 1998 hanno inaugurato in Italia il sistema della detenzione amministrativa con il fine dichiarato di identificare ed espellere quegli immigrati che, essendo privi di permesso di soggiorno, continuano troppo spesso ad essere chiamati, nel modo più rozzo e sbrigativo, clandestini). Dal suo essere storia comune, derivano il suo valore in qualche modo esemplare e il suo interesse, non solo per chi si occupa di immigrazione o di carceri, ma, crediamo, per tutti i cittadini che hanno a cuore i valori di civiltà della nostra democrazia. Il motivo del nostro incontro, e le ragioni per cui Omar ha contattato Medici per i Diritti Umani, sono proprio la sua malattia e la detenzione, prima nel carcere, e poi nel centro di identificazione ed espulsione per immigrati irregolari di Ponte Galeria a Roma.
Omar ha sbagliato e il suo errore lo ha pagato per intero con due anni di carcere. Proprio durante il periodo della detenzione comincia ad avvertire una piccola tumefazione al braccio sinistro, all’altezza del bicipite. Segnala subito il suo problema ai medici del penitenziario, anche perché con il passare delle settimane la tumefazione continua a crescere e a dargli prima fastidio e poi dolore. Non è facile evidentemente per un carcerato avere accesso ad accertamenti diagnostici fuori dall’istituto di pena; siamo nell’Italia del profondo Sud, il Servizio sanitario nazionale ha lunghe liste di attesa anche per i cittadini liberi. Fatto sta che passano ben quattro mesi prima che Omar venga sottoposto ad un’ecografia. Il referto dell’esame è tranquillizzante e depone per un probabile vecchio ematoma. Questo tipo di esame non è però dirimente e nel referto si consiglia l’esecuzione di una biopsia per escludere altri tipi di patologie. Anche per questo esame Omar deve però attendere diversi mesi, in cella, con la tumefazione che cresce e il dolore che si fa sempre più continuo. Altri 5 mesi e finalmente viene eseguita la biopsia. Anche questa volta il responso non è allarmante: si tratterebbe di un fibroma, una forma di tumore benigno. Il problema è però che le diagnosi vanno in una direzione e la malattia in un’altra; la massa continua a crescere.
Dopo oltre undici mesi dall’insorgenza dei primi sintomi Omar finisce di scontare finalmente la sua pena. O almeno dovrebbe. In realtà succede qualcosa che Omar non aveva previsto; viene infatti trasferito nel centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria trovandosi così a scontare, de facto, una nuova pena in assenza di reato (ed è qui il caso di ricordare ancora una volta che gli immigrati internati nei CIE, si trovano privati della libertà per la loro condizione di sans papier – per la violazione, cioè, di una disposizione amministrativa – e non per aver commesso un reato). In realtà questa è una sorte comune a molti immigrati detenuti a cui capita di essere tradotti senza soluzione di continuità dalla galera al CIE poiché lo Stato – negligentemente – non provvede all’ identificazione durante il periodo della reclusione carceraria. Il problema, si dice, è dovuto al mancato coordinamento tra l’ amministrazione penitenziaria ed il Ministero dell’Interno. Situazione sconcertante in cui il migrante deve scontare una pena aggiuntiva, ovviamente percepita come una vera ingiustizia e lo Stato ha un aggravio di spesa per dover trattenere diversi ulteriori mesi – fino al massimo di una anno e mezzo – il migrante da espellere. Nel CIE di Ponte Galeria, – secondo quanto ci ha riferito lo stesso direttore del centro durante l’ultima visita di Medici per i Diritti Umani (febbraio 2012) – i migranti uomini che arrivano dal carcere sono addirittura quattro su cinque! Il dramma di Omar dunque continua dal carcere al CIE dove viene trasferito per essere identificato ed espulso in quanto immigrato irregolare. Omar – ancora una volta – fa presente il suo problema ai medici del centro, i quali si rendono conto che forse qualcosa non torna tra la supposta diagnosi e la reale situazione clinica, tanto è vero che richiedono una visita chirurgica specialistica da effettuarsi in un centro ospedaliero esterno al CIE.
Il CIE però, malgrado i rappresentanti del Ministero dell’Interno e gli operatori che lo gestiscono continuino a chiamare gli immigrati trattenuti “ospiti”, è una vera e propria istituzione carceraria chiusa al mondo esterno (i medici che operano nei CIE sono contrattati direttamente dagli enti che gestiscono il centro per conto dello Stato poiché il personale sanitario delle ASL non è ammesso ) ed un paziente che si deve sottoporre ad un visita o ad un accertamento diagnostico in qualsiasi struttura esterna deve essere obbligatoriamente scortato dalle forze di polizia. Ed è proprio a causa della mancanza della scorta che la visita chirurgica una volta salta. Un’altra volta Omar riesce ad arrivare in ospedale ma è accompagnato con un tale ritardo che non è possibile effettuare la visita ambulatoriale. Viene allora visitato da un medico nel pronto soccorso che si rende conto della gravità della situazione e cerca di far ricoverare il paziente in ogni modo. “Finalmente avevo davanti un medico che prendeva sul serio quello che gli dicevo. Che credeva che veramente stavo male e non che stessi fingendo” ricorda Omar. Come in un perfetto dramma dell’assurdo, il ricovero, però, non avviene e il paziente viene ricondotto al CIE. E certo uno degli effetti perversi sulla garanzia della salute nei centri di detenzione per i migranti è proprio l’interazione sorvegliante-sorvegliato e la reciproca sfiducia che si instaura tra chi dovrebbe essere curato e chi dovrebbe curare. Da un lato la denuncia dei pazienti trattenuti di una scarsa attenzione ai problemi di salute da parte dei sanitari, dall’altro il sospetto sempre presente di tentativi di simulazione di una qualche malattia. Questa dinamica pregiudica seriamente il normale rapporto medico-paziente potendo, tra l’altro, provocare ritardi nella diagnosi tempestiva di malattie potenzialmente gravi. Mi chiedo se questo non sia stato anche il caso di Omar sia nel carcere che nel CIE.
Omar riesce comunque ad essere sottoposto ad una risonanza magnetica solo due mesi dopo l’ingresso nel CIE. E’ proprio in questo periodo che veniamo contattati dall’avvocato di Omar, indignata per le condizioni in cui il suo assistito viene lasciato all’interno di un centro di detenzione malgrado la malattia. Nel frattempo la tumefazione al braccio ha raggiunto le dimensioni di un’arancia ed i dolori sono controllati in modo sempre meno efficace dagli analgesici prescritti dai medici di Ponte Galeria. Cerchiamo di parlare del caso con la Prefettura, Omar richiede l’autorizzazione ad avere un colloquio con me in qualità di medico e persona di fiducia. La funzionaria è stupita della descrizione del caso che gli sottoponiamo ma in ogni caso respinge perentoriamente la richiesta di colloquio poiché gli “ospiti” del CIE sono autorizzati ad incontrare esclusivamente “il proprio avvocato, i familiari di primo grado ed i conviventi che possano dimostrare tale condizione”. Se Omar fosse stato ancora in carcere avrebbe avuto il diritto di incontrarmi ma nel CIE no. Come del resto nel CIE (e sono queste quotidiane imposizioni che, più di ogni altra cosa, rivelano le dinamiche di degradazione della dignità umana che operano in queste strutture) non è consentito agli “ospiti”- per motivi di sicurezza,certo – il possesso di un libro, di un giornale, di una penna, di un pettine. Fino al grottesco, come quando l’anno scorso – nei mesi più freddi e in camerate spesso sprovviste di riscaldamento – i detenuti di Ponte Galeria dovettero dar vita a una protesta, “la rivolta delle ciabatte”, perché obbligati da un’ordinanza prefettizia ad indossare ciabatte in luogo di scarpe con i lacci per scongiurare pericoli di fughe. Ed in effetti, paradossalmente, i detenuti nelle carceri godono di più garanzie dei detenuti dei centri per immigrati. “Qui è peggio di un carcere” è la frase che mi è capitato di sentire con più frequenza, direi in modo ossessivo, da parte degli “ospiti” in differenti CIE e in differenti periodi. Un giudizio che, alla luce delle tante evidenze raccolte, appare più una sgradevole verità che un’iperbole dettata dalle circostanze.
Ed è proprio a proposito del carcere che la funzionaria della prefettura esprime un commento piuttosto significativo: “Ah, dunque questo signore proviene dalle patrie galere !”. “Si è così. Ma questo cosa vuol dire” le rispondo “ha scontato la sua pena ed ha comunque diritto all’assistenza sanitaria come qualunque altra persona”. “Si, si certo” si affretta a replicare la funzionaria. Ed in effetti nelle parole e nei toni della funzionaria ritrovo lo stesso retropensiero del medico del CIE quando replica ai miei dubbi sulla gestione della malattia di Omar nel suo doloroso percorso carcere-CIE: “Ma lo sai che i trattenuti qui nel CIE hanno dei canali preferenziali per curarsi, per fare gli esami diagnostici? Qui siamo in un’isola felice! Conosco pazienti italiani con un tumore (e cita il caso di una sua vicina parente) che devono aspettare mesi per fare una TAC. Qui ci facciamo in quattro per inserirli nelle liste…”. In sostanza, secondo il collega, dal punto di vista sanitario è addirittura quasi una fortuna finire in un CIE ! Si viene curati meglio e prima che stando fuori. Eppure, nonostante la buona volontà di singoli operatori, il caso di Omar, e di tanti altri migranti incontrati nei CIE sparsi per l’Italia, dimostrano esattamente il contrario. E poi il cittadino libero può comunque decidere di rivolgersi ad un altro ospedale, ad un medico di fiducia, ha la facoltà di scegliere da chi essere curato. Il paziente internato nel CIE, invece, libertà di scelta non ne ha. La vita e la salute di Omar sono completamente affidate allo Stato.
Ma la via dolorosa di Omar prosegue. Il referto della risonanza magnetica descrive una grossolana formazione espansiva che necessita di un accertamento istologico. Nel frattempo passa un altro mese prima che Omar possa finalmente venire ricoverato in ospedale. Un giorno di febbraio- ben tredici mesi dopo i primi segni di insorgenza della malattia – Omar entra infine in una sala operatoria ed il tumore viene asportato chirurgicamente. L’esame istologico della neoformazione evidenzia un tipo di tumore maligno aggressivo, con alta frequenza di recidiva. A questo punto finalmente le porte dell’Italia si schiudono per Omar che al termine del ricovero può lasciare il CIE (può venire dismesso, secondo un inquietante neologismo utilizzato fino a non molto tempo fa dal personale del CIE) e tornare a vivere da uomo libero a Roma. Ora, “grazie” alla malattia che lo pone in pericolo di vita, Omar non rischia, almeno per il momento, di essere espulso dal nostro Paese. Certo è un prezzo molto alto quello pagato da Omar. E certo è un prezzo molto alto quello pagato dallo Stato italiano in termini di salvaguardia dei diritti umani e della dignità della persona per non parlare dei costi economici di questi centri. Perché della totalità dei migranti ristretti nei 13 CIE italiani – in condizioni spesso invivibili, all’interno di vere e proprie gabbie – solo la metà, e a volte meno, viene effettivamente rimpatriata. Se poi si considera l’insieme degli immigrati irregolari che si stima siano presenti in Italia (circa 450.000 nel 2011), i CIE sono in grado di rimpatriarne ogni anno meno dell’1%.
E allora cui prodest ? Non certo allo Stato di diritto e alla salvaguardia della dignità umana nel nostro Paese che in questo caso, si, sembrano essere stati dismessi; non certo alla casse dello Stato e non certo neanche all’effettivo contrasto dell’immigrazione irregolare. Ecco allora che la pena inflitta alle persone internate nei CIE appare gratuita ed incomprensibile. A meno che non si voglia considerare compito di queste strutture quello di servire da “discarica umana” al pari di un’altra istituzione totale del passato come il manicomio, anch’esso per lungo tempo e a torto considerato necessario ed insostituibile. E’ il sociologo canadese Goffman il primo a utilizzare il termine istituzione totale nel suo saggio Asylum (1961) nel quale descrive magistralmente i meccanismi degradanti che operano in luoghi come gli ospedali psichiatrici e le carceri. Luoghi “della nostra società occidentale” dove segregare e contenere coloro che vengono, di volta in volta, considerati socialmente indesiderabili. Certo è che nelle gabbie anguste dei centri di identificazione ed espulsione si ritrovano a convivere donne e uomini con percorsi di vita e prospettive spesso profondamente diversi tra di loro: migranti appena giunti nel nostro Paese e persone che vivono e lavorano da anni in Italia, richiedenti asilo e (incredibile!) cittadini dell’Unione europea (nel 2011 sono stati 494 – terza nazionalità per numero di presenze – i romeni trattenuti nei CIE italiani), persone provenienti dal carcere e vittime della tratta della prostituzione, giovani nordafricani giunti a seguito degli sconvolgimenti delle primavere arabe ed anziani clochard stranieri che, come ci riferì un direttore di CIE, “non si sa dove mettere perché disturbano i passanti e alterano il decoro dei nostri marciapiedi”.
Ma la condizione di straniero danneggia ancora una volta Omar. In effetti l’intervento chirurgico a cui viene sottoposto non risulta affatto risolutivo; si è trattato di una semplice asportazione della massa, mentre – dati la gravità e lo stato di avanzamento della malattia – sarebbe stata necessaria una resezione più drastica con completa asportazione del muscolo bicipite. I sanitari dell’ospedale ci dicono che il paziente stesso non ha autorizzato un intervento così demolitivo. Omar racconta però che il suo mancato consenso è dovuto esclusivamente a un problema linguistico e di comunicazione. Troppo tecnico forse l’italiano con cui gli è stato presentato il quadro clinico e le possibili opzioni terapeutiche. Troppo complessa la spiegazione, in assenza di un mediatore, anche per chi, come lui, con l’italiano se la cava bene. Una volta dimesso dall’ospedale, indirizziamo Omar verso una struttura specialistica. I chirurghi e gli oncologi valutano e spiegano con il tempo e la chiarezza necessari. Omar accetta di sottoporsi ad un nuovo intervento chirurgico dopo un mese, questa volta radicale, con il sacrificio quasi totale del muscolo bicipite del braccio sinistro. A questo punto di avanzamento del cancro, però, tutto ciò non è sufficiente. Dopo alcuni mesi il paziente sviluppa multiple metastasi polmonari come conseguenza della malattia primitiva e deve iniziare vari cicli di chemioterapia.
A prescindere dalle diverse opinioni che si possono avere su una questione grande e complessa come l’immigrazione, non si può dubitare che in questa storia il paziente-carcerato-immigrato irregolare Omar, abbandonato a se stesso alla stregua di un malato di second’ordine, abbia a lungo sentito su di se il peso insostenibile della discriminazione: un male forse più insidioso del cancro. Non si può negare che il pesante ritardo nella corretta diagnosi abbia avuto conseguenze assai gravi -e purtroppo a tutt’oggi non del tutto prevedibili- sulle prognosi quod vitam di un malattia in cui il tempo è decisivo; non si può negare che i suoi errori verso la collettività e lo Stato italiano Omar li abbia pagati fino in fondo; non si può negare che lo Stato italiano al contrario sia venuto meno ai suoi doveri di civiltà non garantendo appieno quanto limpidamente stabilito dall’articolo 32 della nostra Costituzione: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo”, di ogni individuo.
Omar lotta ancora con il suo male. L’ultima volta che parliamo al telefono è appena stato operato per la terza volta per una recidiva del tumore sul braccio. Descrive la sua situazione con la stessa calma e la stessa misura del nostro primo incontro. “La chemioterapia l’ho sopportata bene” mi dice “ ho solo avuto dei forti mal di testa. Poi il braccio si è gonfiato di nuovo e mi hanno dovuto operare un’altra volta”. Se Josef K., il protagonista del Processo di Kafka, fosse stato un nostro contemporaneo, forse sarebbe finito in un CIE.
Alberto Barbieri, coordinatore generale di Medici per i Diritti Umani
dalla testimonianza di Omar
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