Oggi, 28 ottobre, alle 10.30 in diretta streaming, è stato presentato il Dossier Statistico Immigrazione 2020, redatto dal Centro Studi e Ricerche IDOS, in partenariato con il Centro Studi e Rivista Confronti e con il contributo della Chiesa Valdese – Unione delle Chiese Metodiste e Valdesi, alla cui realizzazione hanno contribuito decine di studiosi ed esperti in materia. Un appuntamento abituale, quello del Dossier per fare ogni anno il punto sull’immigrazione in Italia. Con l’edizione 2020, il dossier tocca un traguardo importante: compie 30 anni. Qui di seguito l’intervento introduttivo del Presidente di Idos, Luca Di Sciullo.
La parola d’ordine di questo 2020 (lo sappiamo e lo viviamo ancora qui, oggi) è il “distanziamento sociale”: un’espressione tanto infelice, nella misura in cui mette in discussione il senso stesso di comunità all’interno del paese, quanto tuttavia “sintomatica” (è proprio il caso di dirlo!) di una mentalità e di un clima culturale che hanno preso piede e si sono diffusi molto prima della pandemia. Sebbene maldestramente corretta in “distanziamento interpersonale”, prima, e in “distanziamento fisico”, poi, la raccomandazione al distanziamento “sociale”, se la riferiamo agli immigrati che vivono con noi nel paese, non ha avuto e non ha difficoltà a venire osservata; perchè si innesta su un atteggiamento già abbondantemente radicato: con gli stranieri è bene mantenere le distanze e soprattutto tenerli a distanza; verrebbe da dire: ridurli a schermo piatto, come suggerisce la foto di copertina di questa edizione del Dossier, in cui tutti sono incasellati, da lontano, in uno spazio delimitato e inoffensivo, pronto a essere messo offline con un semplice clic, senza che occorra mai incontrarli realmente. Ma questo clima di sospetto e di diffidenza, che mina alle basi la convivenza e la coesione sociale nei contesti già multiculturali che abitiamo, è stato alimentato in maniera sistematica da una politica che, finché sarà incapace di affrontare e risolvere problemi endemici che l’Italia si trascina da decenni, avrà sempre bisogno di un capro espiatorio per giustificarsi.
Tanto più che questi problemi, venuti alla luce e al tempo stesso acuiti con l’avvento della pandemia, oggi stanno presentando un conto salatissimo.
E il capro espiatorio di solito è sempre il più inerme, quello che non può nuocere a sua volta (l’innocente, in senso letterale), e che quindi non può rispondere al male che subisce, perché ha meno diritti di tutti (o meglio: perché non gli vengono riconosciuti gli stessi diritti di tutti). E in questo ruolo, lo straniero calza a pennello.
Quindi il gioco (questo gioco atavico ma sempre infallibile, nella sua violenza) tutto sommato è semplice e si articola in tre passaggi:
1) il potente di turno individua, designa e infine indica pubblicamente il capro espiatorio (“se gli italiani hanno problemi, è colpa degli stranieri”);
2) tutto un compiacente apparato dei media e della comunicazione inizia a demonizzare il capro espiatorio, rappresentandolo e accreditandolo, nella maniera più gonfiata possibile, come la causa e il portatore di tutti i mali da cui la società è affetta. E qui sappiamo a quali costruzioni immaginifiche sia arrivata la narrazione mediatica (e politica) per demonizzare gli immigrati: sono ladri, sono delinquenti, sono estremisti islamici, ci invadono, ecc. ecc. Tutte fandonie puntualmente smentite dai dati, frutto di una distorsione visiva che – se ci pensate – negli ultimi tempi ha raggiunto livelli così parossistici che addirittura si contraddice da sola (con effetti anche tragicomici): sono fannulloni a cui non va di lavorare ma al tempo stesso, misteriosamente, ci rubano il lavoro; sono sani e palestrati, che arrivano “in crociera”, ma al tempo stesso, misteriosamente, sono portatori di malattie (compreso il Covid, con l’immancabile caccia all’untore cinese a cui abbiamo dovuto assistere solo pochi mesi fa);
3) e poi c’è il popolo (non solo quello più succube e accecato da questo martellamento mediatico, ma soprattutto quello più afflitto dagli stessi mali sociali di cui politici e media gli indicano il falso colpevole): questo popolo compie l’esecuzione. Basti guardare quanto si siano moltiplicati gli atti di violenza razzista nel nostro paese solo nell’ultimo paio d’anni.
E così, in questa perversa catarsi collettiva, mentre il simile colpisce il simile, l’impoverito aggredisce il povero, il potere di turno conserva se stesso e la sua inettitudine. A questa dinamica è stata funzionale tutta la legislazione sull’immigrazione che abbiamo conosciuto in Italia negli ultimi decenni, la quale dimostra in maniera inequivocabile una cosa ben precisa: la persistente mancanza di volontà politica non solo di integrare gli immigrati (l’integrazione è sparita dall’agenda politica, italiana ed europea, da almeno una dozzina d’anni), ma anche di gestire l’immigrazione in maniera costruttiva.
È incredibile, ad esempio, che un fenomeno strutturale ed epocale come sono le migrazioni, in continua crescita e diversificazione a livello globale, destinato a riguardarci sempre più nei decenni a venire, in Italia sia ancora gestito da un impianto normativo vecchio di 22 anni: un impianto nato alla fine del secolo scorso, quando l’immigrazione aveva caratteristiche qualitative e quantitative completamente differenti da quelle di oggi.
E, come se non bastasse, da allora le politiche di immigrazione sono state anche sistematicamente delegate, con la compiacenza delle maggioranze e delle opposizioni di turno, a forze politiche dichiaratamente anti-immigrati; le quali non hanno fatto altro che introdurre di volta in volta modifiche di tipo esclusivamente restrittivo al TU del 1998, dalla Bossi-Fini del 2002 fino ai Decreti Salvini del 2018 e 2019 passando dal “pacchetto sicurezza” Maroni del 2009.
Quindi, come possiamo stupirci che l’attuale legislazione in materia, condizionata da un approccio così marcatamente ideologico, contenga dispositivi non solo inadeguati ma addirittura dannosi alla governance della situazione attuale?
Pensiamo solo al fatto che, dopo una crisi globale (quella del 2007-2008) che ha precarizzato l’occupazione di tutti, italiani e stranieri, e a pandemia da Covid ormai conclamata (le cui conseguenze, a livello sociale ed economico, saranno paragonabili – secondo gli esperti – a quelle devastanti di un dopoguerra), noi ancora pretendiamo, per legge, non solo che il lavoratore straniero entri nel paese con un contratto già in tasca, avendo abolito quasi sul nascere l’ingresso per ricerca lavoro sotto sponsor; ma anche che si faccia trovare con un lavoro regolare in essere a ogni periodica scadenza del permesso, pena – di lì a pochi mesi – la caduta nell’irregolarità e la sua espellibilità. Una situazione che – come è noto – ha dato e dà tuttora un potere di ricatto enorme ai datori di lavoro, con tutti gli abusi connessi all’ottenimento di un contratto regolare o all’avvio delle pratiche di regolarizzazione, che quasi sempre avviene sotto pagamento di un “pizzo” a carico dei lavoratori stranieri stessi. Non solo: ma come se l’Italia non avesse l’esigenza di immettere regolarmente nel mercato occupazionale forza lavoro aggiuntiva, visto che da anni il paese invecchia drammaticamente e perderà nel medio periodo (anche a causa di una consistente ripresa degli espatri da parte dei giovani) milioni di persone in età lavorativa, con tutte le pesanti ricadute che questo comporterà anche sul welfare; ebbene, come se tutto ciò non ci fosse, il nostro paese ha creduto bene di interrompere, dal 2008, la programmazione triennale dei flussi d’ingresso di lavoratori stranieri dall’estero. E così da allora i decreti flussi stabiliscono ogni anno quote non solo estremamente esigue (solitamente poco più di 30.000 lavoratori: compreso l’ultimo Decreto del 2020, recentemente emanato), ma soprattutto in stragrande maggioranza riservate o a lavoratori stagionali, e quindi temporanei per definizione, o a conversioni del permesso di soggiorno, e quindi a immigrati già presenti.
Il risultato è che gli “ingressi” veri e propri per un lavoro stabile sono sostanzialmente bloccati da almeno 10 anni. Non è un caso che il numero e l’incidenza dei motivi di lavoro siano crollati sia nello stock sia nel flusso annuo dei soggiornanti stranieri.
Ora, questa mancanza ultradecennale di programmazione degli ingressi per lavoro, congiunta all’abolizione dei permessi di soggiorno per motivi umanitari, stabilita dal Decreto “sicurezza” del 2018, e alla politica dei porti chiusi e dei respingimenti, ha concorso in maniera strutturale a produrre irregolarità tra gli immigrati. La combinazione di queste tre misure, infatti:
- da una parte ha contribuito a svuotare i centri di accoglienza, i cui ospiti sono scesi da 183.700 nel 2017 a 84.400 a fine giugno 2020, per una fuoriuscita netta di quasi 100.000 migranti in appena due anni e mezzo. La maggior parte di costoro erano richiedenti asilo e titolari di protezione umanitaria che, espulsi dai centri, si sono dispersi sul territorio (spesso si tratta di famiglie con figli piccoli o neonati), sono di lì a poco diventati irregolari, sia per le più ridotte possibilità di accedere a una forma di protezione sia per l’impossibilità di rinnovare quella umanitaria;
- d’altra parte, ha determinato un drastico calo della percentuale di riconoscimento delle domande di protezione presentate in Italia (dal 32,2%, in primo grado, del 2018 ad appena il 19,7% del 2019, la metà della media europea). L’aumentata massa di diniegati, che così si è prodotta, stavolta è in gran parte costituita da migranti economici che, costretti dalle politiche di chiusura di cui sopra a mescolarsi con quelli forzati per tentare l’ingresso attraverso la richiesta d’asilo, hanno trovato la strada sbarrata anche in questo canale improprio e, non potendo in gran parte essere rimpatriati a causa dei limitati accordi di riammissione con i paesi d’origine (appena 7.000 rimpatri effettuati nel 2019, il 30,1% dei 23.400 migranti irregolari intercettati nell’anno, solo di poco superiori ai 6.800 rimpatri del 2018 e ai 6.500 del 2017), vengono anch’essi rilasciati sul territorio nazionale in una situazione di irregolarità, dopo una inutile reclusione media di circa 60 giorni in un Cpr.
Il risultato di tutto questo è che nel 2019, per la prima volta in oltre 10 anni (escluso il 2016, quando la cifra-record di 201.000 acquisizioni di cittadinanza ha fisiologicamente abbassato la presenza straniera), i non comunitari regolari sono diminuiti, e anche in misura consistente, in corrispondenza di un probabile aumento del numero degli irregolari (i quali, già stimati in 562.000 a fine 2018, avrebbero sfiorato le 700.000 unità a fine 2020, se non fosse intervenuta la regolarizzazione della scorsa estate, che ha raccolto 220.500 domande).
Quindi, noi: - da una parte non facciamo entrare chi vuole venire a lavorare in Italia, destinandolo all’irregolarità (condizione che – come è noto – espone gli immigrati non solo a venire sfruttati come lavoratori in nero, quindi privi di tutele e di diritti, ma anche a essere reclutati da organizzazioni criminali, che proprio nel sommerso e nell’invisibilità hanno il loro
serbatoio preferenziale da cui pescare la manodopera utile alle proprie attività illegali); - e, dall’altra parte, gli stranieri che un lavoro riescono a trovarlo, continuiamo a impiegarli poco (il tasso di sottoccupazione continua a essere, tra gli immigrati, il doppio di quello degli italiani) e soprattutto a impiegarli male.
Continua, infatti, a essere applicato un modello di vera e propria segregazione occupazionale, per cui la manodopera straniera viene rigidamente canalizzata e tenuta schiacciata, anche dopo decenni di servizio e di permanenza in Italia, sui livelli più bassi delle professioni, nel cosiddetto mercato del lavoro subalterno. Quello in cui, lungi dal mettersi in competizione o rubare il lavoro agli italiani, gli stranieri svolgono le occupazioni meno ambite e più precarie, più di fatica, meno pagate, più rischiose per la salute e più dequalificate (e squalificanti, anche socialmente). Lo dimostra il fatto che ben i due terzi dei lavoratori stranieri sono impiegati in lavori operaio di bassa preparazione (facchini, trasportatori, addetti alle pulizie, camerieri, cuochi, manovali, braccianti, assistenti domestici e alla persona, ecc.) e che ben un terzo è, pertanto, sovra-istruito, cioè ha competenze professionali o titoli di formazione superiori alle mansioni che svolge in Italia.
A tutto svantaggio, oltre che loro, anche del tessuto economico e produttivo nazionale, che trarrebbe benefici strategici e sempre più vitali se solo programmasse e valorizzasse meglio l’apporto occupazionale e produttivo degli immigrati.
Tanto più in questa fase di crisi, in cui il Covid ha frenato addirittura l’andamento espansivo delle imprese immigrate, che – perfino in controtendenza con il trend delle imprese di italiani – non ha conosciuto arresti neppure durante la crisi del 2007-2008.
Il fatto è che, come dicevamo all’inizio, gli stranieri noi li vogliamo tenere a distanza, non li vogliamo incontrare, li vogliamo invisibili. E questo distanziamento, questa “segregazione per legge”, oltre che nella sfera occupazionale, vale anche su almeno altri due piani: quello dell’inserimento sociale in senso lato (che comprende non solo l’accesso al welfare, ma anche la partecipazione attiva alla vita civile e collettiva); e quello della politica internazionale.
Nel primo caso, è incredibile – ad esempio – che, in quello che è un paese di immigrazione da quasi 50 anni, in cui 3 non comunitari su 5 hanno ormai maturato un titolo di soggiorno di durata illimitata (e, tra i restanti, l’80% soggiorna per un motivo che sottintende comunque un insediamento stabile); in cui i matrimoni misti sono arrivati a rappresentare ben il 12% del totale, più di 1 neonato ogni 7 ha genitori stranieri, 3 alunni stranieri su 5 sono nati in Italia e che conta oltre 1,3 milioni di minorenni con un background migratorio; in un paese in cui la natalità è a al punto più basso degli ultimi 102 anni e i giovani italiani
hanno ripreso da diversi anni a emigrare: ecco, in un paese come questo, noi contiamo ancora oltre 800.000 nati in Italia che qui vivono, studiano, lavorano, prendono casa, costituiscono una famiglia e tuttavia non hanno la cittadinanza italiana. Per una legge antiquata che risale a ben 28 anni fa, quindi ancora più vecchia del TU, e che in 28 anni nessun governo, di destra e di sinistra, ha mai voluto (e sottolineo voluto) riformare, nonostante le numerose campagne e i tantissimi disegni di legge depositati allo scopo in Parlamento. Trasferendo così, anche sotto il piano sociale, quelle dinamiche di esclusione, emarginazione e invisibilità osservate prima sul piano dell’inserimento lavorativo. Dinamiche di cui una rappresentazione plastica ci è stata fornita sia nell’ambito scolastico, dove il lockdown ha portato alla luce e acuito al tempo stesso le disuguaglianze sociali; sia nell’ambito dell’accesso alla casa. Nel primo caso, è noto che gli alunni stranieri sono stati tra quelli che hanno avuto meno mezzi per accedere alla formazione a distanza, compromettendo così la già difficile partecipazione alla didattica e alla socializzazione; con tutte le pesanti ricadute che questo ha sui livelli generali di preparazione, che già vedevano gli studenti stranieri rarefarsi nei gradi più alti di formazione (una circostanza che ne riduce la capacità di competere per posti di lavoro a più alta qualifica e quindi finisce per destinarne molti alle stesse canalizzazioni verso lavori di bassa qualifica che caratterizzano i loro genitori).
Riguardo invece all’accesso alla casa, i meccanismi di distanziamento sociale e di segregazione si sono concretizzati nella misura in cui nel 2020 la crisi indotta dal Covid ha interrotto la debole tendenza degli stranieri a comprare o affittare casa nelle zone urbane centrali o semi-centrali, generalmente più abitate da italiani (tendenza osservata negli ultimi anni pur tra le mille difficoltà legate all’accesso al mutuo e alle discriminazioni dei locatori), sospingendoli di nuovo a cercarla e acquisirla nelle periferie o nell’hinterland, lontani e fuori dalla vista, favorendo la formazione di quartieri-ghetto e attriti sociali con gli italiani più poveri che nelle stesse periferie vengono ugualmente confinati.
Ma alla fine il piano sul quale si esercita forse con più accanimento e pervicacia la volontà di “distanziamento sociale” degli stranieri è quello delle politiche internazionali. Pur sapendo a quali salatissimi costi umani è stato ottenuto il crollo degli sbarchi di profughi nella rotta del Mediterraneo centrale (in sfregio e in spregio del diritto internazionale, dei riferimenti costituzionali e dei più basilari principi di civiltà); e ben sapendo cosa vuol dire, in termini di violenze, torture, stupri, riduzioni in schiavitù e “orrori indicibili” – come li ha definiti le stesse Nazioni Unite – tornare nei campi di detenzione libici, incredibilmente, a luglio 2020, per il quarto anno consecutivo, il Parlamento italiano ha votato, ancora una volta con un ampio consenso bipartisan, il rifinanziamento della cosiddetta “missione di recupero e salvataggio dei migranti in mare da parte della guardia costiera libica”: una espressione che contiene una dose – insopportabile – di menzogna quasi in ogni singola parola.
Un rifinanziamento bipartisan per 58 milioni di euro, 3 in più rispetto al 2018, che mostra chiaramente come, a parte poche ancora credibili eccezioni, sulla questione delle migrazioni in fondo vige trasversalmente, tra quasi tutti i partiti, un pensiero unico.
È arrivata così a più di 784 milioni di euro (di cui quasi 214 milioni per missioni militari) la somma complessiva che l’Italia ha destinato alla Libia dal 2017, quando il nostro paese – con il sostegno dell’Ue, che a sua volta ha destinato a Tripoli circa 700 milioni di euro nel proprio bilancio 2014-2020 – è stato in prima fila sia per l’istituzione della cosiddetta
“guardia costiera libica” (spesso collusa o formata essa stessa da milizie degli stessi clan che controllano il traffico dei migranti e i campi di detenzione), sia per l’istituzione di una zona di mare cosiddetta “Sar” (Search and rescue: ricerca e salvataggio), sotto il diretto ed esclusivo controllo dei guardacoste libici.
E, come se non bastasse, aggiungendo, in tempi più recenti, un corollario di altre iniziative sconcertanti, tra le quali forse la più imbarazzante è stata, nell’aprile scorso, l’auto-proclamazione dell’Italia come “porto non sicuro” per i profughi (un’auto-dichiarazione che ha quasi il sapore di una beffa, dal momento che ci ostiniamo a considerare un “porto
sicuro” la Libia stessa); con la conseguente attivazione di navi-quarantena, le quali spesso non hanno fatto altro che aggravare ulteriormente, con attese di giorni in mare senza adeguata assistenza, sofferenze e condizioni sanitarie dei migranti già all’estremo per le
violenze e gli stenti subiti.
Del resto, sappiamo bene che a questa impermeabilità delle frontiere hanno lavorato non solo tanti altri Stati europei singolarmente, costruendo muri e posti di blocco per tutto il continente, ma anche l’Unione europea in quanto tale, a cominciare dal discutibile accordo
sui migranti con la Turchia, del marzo 2016, periodicamente minacciato di essere sospeso da Erdoğan nonostante i 6 miliardi di euro che l’Unione gli ha elargito per bloccare l’afflusso dei profughi.
Nessuna civiltà è mai diventata grande costruendo muri e barriere ai propri confini e fomentando una mentalità da assediati. Eppure noi, italiani ed europei di oggi, siamo riusciti non solo a materializzare interi governi sulla paura dell’assedio; ma, infettati da questa sindrome da accerchiamento, i confini li abbiamo addirittura trasferiti fuori di noi, pur di non vederli e non averne a che fare. Abbiamo così inventato e realizzato l’“esternalizzazione delle frontiere”: la quale non rappresenta solo una strategia che consente di aggirare il principio di non respingimento, sancito dal diritto internazionale, attraverso il finanziamento di Paesi terzi a cui deleghiamo di impedire, anche con palesi violazioni dei diritti umani, il raggiungimento dei confini europei; ma è soprattutto il sintomo di qualcosa di più profondo: del fatto, cioè, che noi i limiti, che le frontiere stesse sono (i luoghi in cui finisce l’identità e inizia l’alterità: la linea in cui lo straniero ci tocca, ci riguarda, ci interpella e in un certo senso ci aspetta): ecco, noi questi limiti non li tolleriamo, non li sopportiamo, non abbiamo più la forza di reggerli. Fino al punto che, per non vederli, li trasportiamo altrove. Ecco il trionfo del vero “distanziamento sociale”!
E lì, dove li abbiamo trasportati, accada pure quel che accada!
Ma la verità è che noi i confini non li sopportiamo e non li vogliamo vedere perché li abbiamo sistematicamente riservati a tutti i nostri scarti umani; e quindi sono diventati il luogo da cui si leva, in terra e in mare, un grido di sofferenza collettiva che rappresenta la nostra condanna.
Abbiamo ancora tutti davanti agli occhi quelle vere e proprie discariche di rifiuti umani che sono i campi profughi, ai confini della nostra Europa; e in particolare abbiamo visto quello di Lesbo, bruciare fino a consumarsi totalmente, con le 13 mila persone che lo abitavano tenute, ciononostante, ancora lì, nei nostri confini invisibili e invisitabili, nei nostri confini inconfessabili. E quando si sono riversate sulle strade dell’isola, con 5.000 bambini che hanno dormito sull’asfalto, le abbiamo ricacciate a forza di getti d’acqua in un’altra discarica, nuova di zecca. Così si fa con l’immondizia.
I confini, invece, bisogna abitarli, per capire. Occorre viverli di persona, toccarli e frequentarli il più spesso possibile, perché è esattamente lì, e solo lì, che può avvenire quel miracolo che è l’incontro vero con l’altro, con lo straniero, da cui ciascuno può venire finalmente ri-alfabetizzato e ri-educato alle ragioni e alla levatura dell’umano. A questa ri-educazione vuole contribuire anche il Dossier, possibilmente ancora per gli anni a venire, insieme a tutti gli amici e alle strutture che hanno intenzione di condividere ancora con noi questo cammino di civiltà.
Grazie
Il Dossier Statistico Immigrazione 2020 (30^ edizione), curato dal Centro Studi e Ricerca IDOS in partnership con Confronti, è stato presentato on line mercoledì 28 ottobre in un evento nazionale e in 19 convegni regionali.
A questo link si può scaricare la cartella stampa completa.
A questo link si può vedere il video che riassume i principali dati del Dossier (9’ 45”).
Il Dossier Statistico Immigrazione 2020 in versione integrale può essere acquistato sul sito web di IDOS.