Il Tavolo Nazionale Asilo, coordinamento di dodici organizzazioni nazionali della società civile (Acli, Arci, Asgi, Caritas italiana, Casa dei diritti sociali, Centro Astalli, Consiglio Italiano per i Rifugiati, Comunità di S. Egidio, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, Medici per i Diritti Umani, Medici Senza Frontiere, Senza Confine) ha presentato un documento in cui viene messo in discussione quanto sta accadendo sul territorio italiano nei centri per identificare i migranti in arrivo: ovvero nei cosiddetti “hotspot”. Nel documento, si fa rilevare che gli hotspot sortiscono l’effetto principale di aumentare la “clandestinità” ed il numero dei migranti considerati irregolari ed abbandonati a loro stessi, esponendoli così a rischi di varia natura e alimentando il senso di insicurezza sui territori. Il sistema degli hotspot, voluto dall’Ue e realizzato alle frontiere europee, di fatto si sta configurando come una mera operazione di selezione e respingimento che preclude la possibilità a moltissimi di richiedere protezione e asilo. Qui di seguito il comunicato stampa.
Noi sottoscritte organizzazioni, aderenti al Tavolo Nazionale Asilo, esprimiamo la nostra preoccupazione per la deriva fortemente negativa che rischia di determinare da qui in avanti la politica di asilo in Italia a seguito delle decisioni assunte a livello europeo per contenere il numero dei richiedenti asilo in arrivo nei paesi di prima frontiera, Italia e Grecia in primo luogo.
Negli hotspot istituiti in questi ultimi mesi a Lampedusa, Trapani e Pozzallo stiamo osservando gravissime prassi e violazioni di diritti fondamentali: respingimenti arbitrari; trattenimento coatto, senza alcun controllo giudiziario, per periodi più lunghi delle 48 ore previste dalla legge; negazione dell’accesso alla procedura d’asilo e uso della forza per l’identificazione delle persone in arrivo. L’apertura di hotspot a Porto Empedocle, Augusta e Taranto, prevista per le prossime settimane, non potrà che aggravare la situazione.
Gli hotspot sono centri chiusi istituiti in strutture già esistenti e precedentemente utilizzate come centri di primo soccorso e accoglienza o come centri di identificazione e espulsione. Invece di aumentarne la capienza e migliorarne le condizioni per garantire una vera prima accoglienza, i fondi dell’Unione Europea vengono spesi per creare muri e recinti. In questi luoghi – dove attualmente si trovano 1.200 persone e nel futuro prossimo potranno esserne trattenute fino a 2.100 – operano le forze di polizia, supportate da funzionari delle agenzie europee, innanzitutto di Frontex. Il loro obiettivo è realizzare il fotosegnalamento e completare una distinzione arbitraria, tra richiedenti asilo e migranti economici, senza che venga in alcun modo applicata la procedura prevista dalla normativa.
Sappiamo di centinaia di persone che, nonostante la loro manifestazione di voler richiedere protezione, hanno ricevuto decreti di “respingimento differito” con l’obbligo di lasciare l’Italia entro 7 giorni attraverso l’aeroporto di Fiumicino. Sono stati lasciati letteralmente sulla strada, privi di assistenza, esponendoli al forte rischio di finire nelle maglie della criminalità organizzata, sia in qualità di vittime, che di complici e alimentando il senso di insicurezza degli stessi territori. Senza considerare il fatto che queste prassi determinano un ulteriore aggravio sulle realtà di terzo settore impegnate nell’accoglienza e che attualmente sono le uniche a farsi carico di queste
Questa prassi peraltro continua, nonostante l’intervento della magistratura che, in numerosi casi, ha sospeso i provvedimenti della polizia. Si segnalano inoltre alcuni casi di minori non accompagnati che, erroneamente identificati come maggiorenni, hanno ricevuto un decreto di respingimento. Alla luce di tali episodi preoccupa il rischio all’interno degli hotspot di ulteriori erronee identificazioni di migranti minorenni, in considerazione della celerità con cui si devono svolgere le procedure di identificazione e con l’aggravante dell’attuale mancanza di una procedura nazionale uniforme per l’accertamento dell’età dichiarata.
Osserviamo la tendenza a distinguere, tra le persone soccorse in mare e sbarcate nei porti siciliani, i migranti dalle persone bisognose di protezione esclusivamente in base alla loro nazionalità. Cittadini provenienti da alcuni paesi africani come Gambia, Senegal, Nigeria o Ghana sono automaticamente considerati “non rifugiati” e pertanto non ammessi alla procedura d’asilo. Questa tendenza è anche presente nella politica europea per il ricollocamento di richiedenti asilo dalla Grecia e dall’Italia verso altri paesi dell’Unione: solo le nazionalità che nell’insieme degli Stati membri hanno un tasso medio di minimo 75 % di riconoscimento della protezione si qualificano per il trasferimento in altri paesi. Questi provvedimenti negano un principio basilare, previsto dalla Convenzione di Ginevra sui Rifugiati del 1951, che stabilisce che per il riconoscimento della protezione conta solo la situazione individuale, la personale esposizione a persecuzioni e violenze, non l’appartenenza a questa o quella nazionalità. È da ricordare che il legislatore italiano, giustamente, non ha mai voluto prevedere una “lista di paesi sicuri di provenienza”, lasciando la valutazione delle singole domande di protezione esclusivamente nelle mani delle Commissioni territoriali.
Abbiamo rilevato, attraverso la raccolta di dati e testimonianze dirette, che la gran parte dei migranti ha dichiarato di essere stata costretta a fuggire dal paese di origine a causa di persecuzioni politiche, religiose e sessuali, dittature, guerre civili, situazioni violente all’interno di comunità e gruppi familiari ed è considerevole il numero di vittime di torture e trattamenti crudeli, inumani e degradanti durante le rotte. I migranti forzati vittime di torture e maltrattamenti sono persone che, a prescindere della procedura per ottenere lo status di rifugiato, hanno diritto a una forma di protezione internazionale e non possono essere rimandate indietro nelle mani dei loro torturatori.
Noi sottoscritte organizzazioni – pur riconoscendo il tentativo delle istituzioni europee e degli Stati membri di perseguire una maggiore condivisione delle responsabilità, non lasciando soli i paesi di primo arrivo e proponendo misure di solidarietà europea volte a superare le rigidità del “Sistema Dublino” – riteniamo che il meccanismo del ricollocamento a tal fine introdotto si basi su modalità di funzionamento tali da decretarne fin da principio il sostanziale fallimento. La limitazione a pochissime nazionalità, in concreto nel caso italiano quasi esclusivamente in favore di eritrei, il fatto che i legami dei richiedenti asilo con un determinato paese europeo non vengano presi sufficientemente in esame, il diritto riconosciuto agli altri Stati di rifiutare l’accoglienza: tutto ciò si traduce in una logica in cui il richiedente asilo è considerato un “pacco” da spostare, non una persona da proteggere, da accogliere, da assistere nel percorso di integrazione. Questi fattori concorrono a far si che il risultato del ricollocamento sia al momento estremamente povero, soprattutto rispetto al numero di richiedenti effettivamente ricollocati, e segnato da una grave sfiducia che, ancora una volta, favorisce il ruolo dei trafficanti per consentire l’arrivo, irregolarmente, alla destinazione auspicata.
Noi chiediamo:
che negli hotspot l’attuale legge italiana venga scrupolosamente attuata e che i centri ritornino ad essere luoghi di prima accoglienza e di soccorso;
che le persone arrivate in Italia abbiano accesso ad un’accurata informativa fornita subito dopo lo sbarco dall’UNHCR e dagli enti non governativi di tutela;
che quanti manifestano l’intenzione di chiedere protezione vengano ammessi alla procedura d’asilo senza distinzione alcuna rispetto alla loro nazionalità e che vengano subito trasferiti nei centri di accoglienza del sistema SPRAR, adeguatamente potenziato;
che le procedure per il ricollocamento vengano accelerate e includano comunque un colloquio tra il richiedente e operatori indipendenti sui legami e le preferenze della persona rispetto ad altri Paesi dell’Unione Europea, legami che debbono essere presi in seria considerazione;
che l’Italia, assieme alla Grecia, promuova rapidamente, in sede comunitaria, un approccio diverso della misura di ricollocamento che prescinda dalle restrizioni attualmente imposte, che rinunci alle discriminazioni in base alla nazionalità e che dia il giusto peso ai legami delle persone con un determinato paese.
Roma, 1 marzo 2016