Quanto è stata odiosa l’ultima campagna elettorale per le elezioni europee? Di alcuni casi di discorsi d’odio clamorosi abbiamo riferito anche noi su questo sito, ma Amnesty International ha la forza per fare un lavoro sistematico che noi non abbiamo e, per fortuna, lo fa bene. Il “Barometro dell’odio” presentato a Roma è appunto il tentativo di monitorare e di verificare come e quanto l’hate speech, il discorso d’odio è entrato a far parte dell’ecosistema elettorale a partire dall’analisi della campagna per le elezioni europee del maggio scorso. Descriviamo per sommi capi i risultati per poi fare qualche valutazione.
Se escludiamo quel che Amnesty ha catalogato nella categoria “altro” (che include anche insulti e scambi poco edificanti tra politici), c’è stata una quantità notevole di espressioni e attacchi discriminatori nei confronti delle minoranze, dei migranti, dei rom e delle Ong. Più i post erano violenti e più generavano reazioni sui social, comprese le reazioni di protesta e rabbia per i contenuti postati. Nei discorsi d’odio o nei messaggi online che a questi si avvicinano, per le donne (ahi noi) c’è un posto speciale: per ciascuna categoria bersaglio presa in considerazione, gli insulti e lo scherno hanno spesso anche una caratterizzazione sessista. Gli esempi perfetti, uno passato e uno presente sono quelli di Laura Boldrini e Carola Rackete che quando vengono insultate nei commenti o nei rilanci dei post/tweet vengono insultate anche in quanto donne (o utilizzando il sesso come spiegazione del loro agire).
Di grande interesse un aspetto relativo a chi e come ha usato (beneficiato) del discorso d’odio: Matteo Salvini conta per il 51% delle interazioni con i post di un politico con contenuti problematici e la somma delle interazioni di Lega e Fratelli d’Italia arriva al 75% del totale. Durante la campagna elettorale Salvini è la parola che ricorre di più in assoluto, quella più semanticamente piena. Questo ci dice che “la Bestia” il software su cui si appoggia il social media manager del ministro dell’Interno ha lavorato bene. E che i media, rilanciando quei contenuti e quel discorso, anche quando lo denunciano, danno una mano ai propagatori di odio. Si tratta di un discorso difficile al quale non abbiamo ancora trovato una risposta: far finta che certi discorsi e contenuti non esistano sarebbe sbagliato.
Un discorso a parte merita il discorso d’odio nei confronti della solidarietà, delle Ong che salvano persone in mare. Qui riportiamo le parole dure utilizzate dal direttore di Amnesty Gianni Rufini: “Stiamo osservando questo: un’organizzazione che cerca di salvare vite e una giovane donna violano consapevolmente una norma – a mio avviso anti-costituzionale – e si congeda alle autorità e per questo viene ricoperta di insulti, minacce e offese sui social media”. “Ricca fuorilegge tedesca”, “Nave pirata” come se l’urgenza di agire venisse dalla noia dell’agio e come se la SeaWatch fosse una nave dedita alle rapine ai transatlantici e agli yacht. Tutto condito da anni dall’insinuazione che le navi siano pagate da qualche miliardario ebreo per favorire la sostituzione etnica. “Quando si insulta una parte positiva del Paese ci si dimentica la differenza tra bene e male. E infatti nel monitoraggio fatto da Amnesty, al primo posto ci sono immigrati e rifugiati, ma al secondo c’è la società civile e la solidarietà. Siamo divenuti un nemico da abbattere” conclude Rufini.
Altra valutazione importante riguarda i toni usati nel corso della campagna elettorale: da quando le vittime degli insulti hanno cominciato a querelare, il modo di insultare è diventato meno diretto e esplicito. Secondo Amnesty non c’è più vero e proprio hate speech, ma si cerca semmai di generarlo. Come? Su questo ha detto alcune cose interessanti Federico Faloppa dell’Università di Reading che collabora con Amnesty e con il tavolo sull’hate speech (cfr. sotto) e che ha analizzato i 100mila post selezionati dal lavoro di monitoraggio.
Cosa cambia sul piano retorico e testuale se si rischia di incappare in reati collegati al discorso d’odio? “Si ingiuria la persona invece del suo discorso – e quindi si eccita l’odio verso di te e non nei confronti delle tue idee” dice Faloppa. E fino a qui passiamo dal discorso d’odio alle ingiurie o calunnie. Ma le modalità per generare reazioni sono molto più sottili: “Si affiancano due frasi che determinano un rapporto di causa-effetto: ci sono persone in difficoltà su una barca ma ce ne sono tante di più in Italia. Tra le due cose non c’è relazione, non c’è causa effetto, eppure se ne lascia intravedere uno. Oppure si fa uso di domande retoriche: voi cosa fareste? Non aiutereste prima gli italiani? – continua il professore che conclude parlando di scelte – stai con il governo del tuo Paese o con le Ong? Con gli italiani o con gli stranieri? Queste forme retoriche contribuiscono a formare il discorso d’odio senza nominare l’odio”. In Italia il contesto è aggravato dalla scarsa qualità e selettività dei media.
Utile la notazione di Faloppa quando dice che gli hate speechers “hanno costruito un linguaggio comune condiviso mentre il nostro è frammentato. Una delle forze degli avversari è ad esempio la forza di smantellare e demolire il discorso della solidarietà”. Il balbettare delle forze non di destra su questo tema, viene da commentare, è proprio un segnale della egemonia di chi diffonde discorsi xenofobi e razzisti.
Alla presentazione ha partecipato anche Vox Diritti che ha presentato la sua utilissima mappa dell’intolleranza segnalando due cose: la civile Milano è il luogo da cui, su twitter, partono più insulti razzisti agli immigrati e la decadente Roma è la città dove con più frequenza partono messaggi antisemiti (con un balzo notevole in avanti nell’ultimo anno che riguarda tutta l’Italia). Antonio Nicita ha poi presentato il regolamento elaborato dall’AgCom (ne abbiamo parlato qui) invitando a non fare equivalenze con la situazione statunitense, dove per molte ragioni la realtà giuridica è diversa. E ha poi sollevato un tema cruciale: essere vittima di hate speech per un cittadino dotato di pieni diritti sociali e civili è molto diverso rispetto a una persona dallo status giuridico indefinito, un invisibile o quasi.
Il tavolo per il contrasto al discorso d’odio creato da Amnesty coinvolge molte organizzazioni. Tutti i numeri riportati, le esperienze e i tentativi di contrastare il discorso d’odio e il relativo fallimento in questo senso del de-bunking e del fact checking ci ricordano una cosa: l’importanza di coordinarsi e lavorare insieme, parlarsi meglio e di più per costruire strategie e discorsi comuni.
I cattivi di questa brutta favola un discorso comune ce l’hanno e lo usano benone.
(Martino Mazzonis)