C’è un centro di identificazione ed espulsione dove, da due anni, la mensa è chiusa. Dove non è possibile introdurre giornali o libri per paura che gli “ospiti” usino la carta per dare fuoco alla struttura. Dove le ore dedicate alle “attività libere” si svolgono comunque dentro uno spazio circondato da inferriate: in altre parole dentro una gabbia. Dove solo da due mesi sono state reintrodotte le lenzuola di stoffa.
Questo centro è quello di Gradisca d’Isonzo, in provincia di Gorizia, Friuli Venezia Giulia. Una zona di confine, la cui terra è già stata lacerata nella sua storia dalla questione dell’identità e della frontiera. Solo che il Cie di Gradisca è un parto del tutto moderno, il frutto – insieme a quello di Bari – della filosofia del contenimento dell’immigrazione sulla base della repressione.
I Cie di Gradisca e Bari hanno aperto le loro porte nel 2006: sono stati l’ultimo prodotto del ministero dell’Interno guidato da Giuseppe Pisanu, nella legislatura che ha dato alla luce la legge Bossi-Fini. Sono, insomma, stati “studiati” per trattenere il più a lungo possibile gli immigrati, deprivandoli dei normali diritti – partendo dall’idea di essere carcerato senza aver commesso alcun reato – e isolandoli in un contesto alienante – non a caso tutti i mobili erano inchiodati al terreno.
Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata, ma i Cie sono sempre lì a dover far fronte a una legislazione propagandistica, che ha portato alla detenzione per un periodo che può arrivare fino a 18 mesi. E a Gradisca d’Isonzo i migranti vengono trattenuti sul serio 18 mesi. Lo racconta Genni Fabrizio, Presidente della Tenda per la Pace e i Diritti, aderente alla Campagna LasciateCientrare, da sempre attenta e vicina al movimento per i diritti dei migranti e da sette anni “watchdog” del Cie di Gradisca: “La media di trattenimento di questo Cie è molto alta – spiega – il questore recentemente ha raccontato che una persona è stata espulsa il giorno prima dello scadere dei diciotto mesi. Lui stesso lo ha definito un ‘caso umano’”.
La visita della Commissione Diritti Umani
“Questo Cie – aggiunge Fabrizio – è stato pensato sulle logiche della Bossi-Fini, e si vede. La condizione di vita è durissima, e sembra che sia stato pensato per portare le persone alla pazzia”. Le rivolte all’interno del centro sono frequenti – anche se non si può dire che sia il più “ribelle” d’Italia, visto che ormai le rivolte nei Centri sono una normalità, a cui si risponde per sottrazione di diritti, proprio come è successo a Gradisca: niente più libri, niente più giornali, niente più mensa perché è stata incendiata. In un circolo vizioso che ha ben poco di razionale.
Ad agosto un ragazzo è caduto dal tetto del Cie, finendo in ospedale. E’ ancora in coma, e viene trattato come un “caso riservato”. Le associazioni e i movimenti friulani hanno dovuto ingaggiare una battaglia per assicurare ai parenti di questo ragazzo di poter avere notizie. E chi è andato a trovarlo per fargli sentire un po’ di calore umano mentre lotta contro la morte è stato identificato. Di lui è stato scritto poco e spesso sbagliato, informazioni più corrette possono essere trovate in questo post del sito memoriaeimpegno.org.
Il presidente della Commissione diritti umani Luigi Manconi ha visitato il centro martedì scorso: “44 persone vivono peggio che in carcere”, ha detto, sostenendo che il Cie di Gradisca dovrebbe essere immediatamente chiuso. “Si tratta di una questione urgente e grave. Temo che la questione dei Centri di detenzione stia cadendo nel dimenticatoio”, ha aggiunto il parlamentare. Cogliendo probabilmente nel segno: il governo delle “larghe intese” non intende porre sul tavolo una delle molte questioni che divide (in parte) Pd e Pdl, e che oltretutto non appassiona né l’uno, né l’altro.
Il dibattito in Regione tra Pd e Pdl
D’altronde il Cie di Gradisca è interessante anche per osservare il termometro del dibattito politico. La presidente della Regione Debora Serracchiani ha inviato una lettera al governo chiedendo un intervento serio sul Cie, che possa contemplarne anche la chiusura. Nelle interviste sui giornali, però, anche Serracchiani ha spinto il pedale sulla demagogia, sostenendo in modo un po’ confuso: “Non è accettabile che convivano nella stessa struttura persone che hanno già subito una condanna per reati gravi con altre che magari hanno solo perso il lavoro e che rischiano l`espulsione. I Cie sono contenitori che si finge di non vedere, e anche Gradisca è diventata una camera di compensazione del carcere, con pesanti ripercussioni sotto molti punti di vista”. Un’affermazione che può lasciare intendere che nei Cie ci finiscano “tout court” persone pericolose e che hanno commesso reati: cosa che può capitare e che (semmai) lede anche i diritti di chi ha commesso un reato che, dopo aver scontato la pena in carcere, si vede costretto a rimanere ulteriori mesi dentro a un Cie in attesa dell’espulsione.
D’altronde, il discorso facile facile che dipinge i Cie brutti e cattivi perché permette la commistione tra gli immigrati buoni e gli immigrati cattivi ha trovato una immediata risposta da parte dei consiglieri regionali del Pdl: contestando le dichiarazioni di Serracchiani hanno scritto in una lettera che chi chiede la chiusura dei Cie “deve avere il coraggio di dire ai cittadini che, prendendo ad esempio il CIE di Gradisca d’Isonzo, la maggior parte dei clandestini, che non hanno nulla a che fare con quelli appena giunti a Lampedusa, stanno scontando pene detentive per stupro, rapina, spaccio di stupefacenti, violenza. Diversa, naturalmente, è la situazione presso il Cara e il Cpa”.